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Stoccolma, le giornate dello sviluppo e le oscure previsoni per Copenhagen

Quarta edizione delle Giornate europee dello sviluppo, evento annuale organizzato dalla Commissione e dalla Presidenza dell'Ue anche sul summit di dicembre che si è aperto oggi a Stoccolma, in Svezia, ma le preoccupazioni per una fallimento di Copenhagen aumentano.

(Rinnovabili.it) – “Il contrasto agli effetti dei cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo”. Questo è il tema principale della quarta edizione di questo convegno. E lo scopo è prepararsi per la conferenza sul clima di Copenhagen con una sola posizione dal continente africano e dai Paesi in via di sviluppo.
Quattromila delegati da oltre cento Paesi, 1500 organizzazioni della società civile europea e africana e poi capi di Stato, premi Nobel e personalità impegnate in questo senso, Kofi Annan, George Soros, Lord Stern, Jose’ Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, Morgan Tsangirai, primo ministro Zimbabwe, Ellen Johnson Sirleaf, presidente della Liberia, Blaise Compaore, presidente del Burkina Faso, Wangarii Maathai, premio Nobel per la Pace, Jeremy Hobbs, direttore di Oxfam International. L’intento è quello di dare forza e spinta allo sviluppo per costituire una cooperazione globale contro la povertà e centrare gli obiettivi Onu di Sviluppo del Millennio.
Oltre temi quali la crisi economica e finanziaria, la governance, la lotta contro la povertà, tre saranno gli argomenti basilari: la nuova sfida del clima, la rivoluzione verde e la sostenibilità ambientale. E’ l’occasione per condividere idee e costruire partnership anche in vista dell’appuntamento di Copenhagen.
Insomma un’altra riunione in vista del summit di dicembre dove i paesi più poveri cercano di presentarsi uniti, al contrario di quelli industrializzati e quelli in via di sviluppo che, con l’appressarsi della Conferenza, sembrano non trovare nessun tipo di accordo e di unità.
L’importanza della cooperazione ce la spiegano le parole di Desmond Tutu: “Una persona è una persona se interagisce con altre. Non c’è alcun modo attraverso cui godere della prosperità se si è soli. L’unico modo con cui essere salvi e sicuri è lo stare insieme agli altri”.
E il concetto è ribadito da Kofi Annan: “Le soluzioni efficaci richiedono un livello di cooperazione senza precedenti perché sono spesso coinvolte persone e gruppi che di solito non sostengono gli stessi temi”.

A Stoccolma quindi le parole d’ordine sono: partecipazione e inclusione. Quest’anno il tema è quello dei cambiamenti climatici, ma le discussioni vertono sulle ultime sfide della politica anche in altri settori chiave. Le Giornate, si apprende dal “sito”:https://www.eudevdays.eu dell’iniziativa, confermano la _mission_ dell’Unione europea “per contribuire alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti dei bambini, nonchè alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, compreso il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite”.
Ma non tutti sembrano pensarla così, infatti in un’analisi apparsa un paio di giorni fa’ sul New York Times (“leggi qui”:https://www.nytimes.com/2009/10/21/science/earth/21treaty.html?scp=1&sq=Yvo%20de%20Boers&st=cse) si ipotizza infatti l’eventualità che da Copenhagen non esca un trattato globale che decida tutto e subito in materia di lotta al riscaldamento globale. Ad esempio sembra che gli Stati Uniti e molti altri principali paesi responsabili delle emissioni, abbiano ormai concluso che sarebbe più utile adottare misure contingenti, ma importanti che portino in seguito ad un accordo globale, invece che cercare un trattato-pastrocchio che risulterebbe inadatto ad affrontare il problema o troppo oneroso perché raccolga una ratifica globale compresa l’accettazione di un’autorità capace di far rispettare l’accordo anche con l’adozione di sanzioni.
Sembra invece che si sia orientati verso una serie di passaggi intermedi che consisterebbero nel continuare a trattare anche nel prossimo anno.
Insomma la Conferenza di Copenhagen diverrebbe così una tappa e non un traguardo. Questo è grave, non solo in sé, ma anche per l’idea che le soluzioni ad un problema impellente come quello del clima possano essere procrastinate, senza un programma e un obiettivo preciso.
Addirittura Yvo de Boer, il diplomatico olandese Segretariato delle Nazioni Unite per il clima e che supervisiona le trattative, ha dichiarato alla fine della settimana scorsa “Non c’è tempo sufficiente per ottenere il tutto e subito. Ma spero che si andrà ben oltre una semplice dichiarazione di principi. La soluzione potrebbe essere quella di porre le basi per un accordo che sarebbe ratificabile nel prossimo anno “.
I negoziatori più realistici hanno fatto notare come i rappresentanti delle 192 nazioni nei colloqui non risolveranno le questioni in sospeso: il divario tra paesi ricchi e poveri, ma anche tra le nazioni più ricche, è troppo ampia.
Anche se le aspettative restano comunque alte per il summit, perché dalle questioni dell’ambiente conseguono molte altre questioni internazionali, compreso il commercio, la sicurezza, lo sviluppo economico, la produzione di energia, la condivisione della tecnologia e la sopravvivenza di alcune nazioni più vulnerabili del pianeta.
Primaria rimane l’esigenza di arrestare e poi invertire l’aumento delle emissioni a effetto serra, anche se è spesso un’enunciazione teorica perché poi ci sono divisioni sui metodi, i tempi e gli obiettivi.
A tutto ciò non è estranea l’incapacità del Congresso Usa ad emanare per tempo una legislazione su clima ed energia che fissi standard vincolanti. Senza un tale impegno, difficilmente le altre nazioni si sentiranno spinte a farlo in proprio.
Addirittura il vice-negoziatore americano per il clima, Jonathan Pershing, ha affermato la settimana scorsa, in una riunione dei negoziatori a Bangkok: “Non abbiamo intenzione di partecipare ad un accordo che non possiamo accettare” e le voci indicano che un disegno di legge sul clima in Usa non ci sarebbe prima della prima metà del prossimo anno. In più, riporta il New York Times, i funzionari americani credono che a Copenaghen nessun accordo sarebbe meglio che un cattivo accordo che non potrebbe essere ratificato.
E quindi ci sono tutte le premesse che, se mai un accordo si dovesse raggiungere, potrebbe slittare di sei mesi o di un anno addirittura.
“La forma più probabile di un accordo potrebbe essere una dichiarazione politica – ha dichiarato Nigel Purvis, ex negoziatore per il clima del Dipartimento di Stato presso le amministrazioni di Bill Clinton e George W. Bush – dichiarazione da parte dei leader di alto livello, o potrebbe essere adottato dalle parti come una decisione formale. Questo non renderebbe giuridicamente vincolante un accordo, ma manderebbe un segnale al mondo della direzione nella quale procedono i negoziati e fornire indicazioni ai negoziatori che dovrebbero continuare così il loro lavoro”.
Può non piacere, ma è assai probabile che questa sia una previsione realistica e concreta.

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