Agricoltura intensiva o 'vecchie maniere'? Contro il Climate Change la scelta migliore sembra essere la prima: nonostante l'utilizzo dei pesticidi e dei fertilizzanti si garantirebbe una percentuale inferiore di emissioni di CO2 preservando le aree boschive dalla conversione a terreni agricoli
(Rinnovabili.it) – La *Green Revolution* degli anni Sessanta ha aumentato la resa delle coltivazioni riducendo la fame e contribuendo a ridurre il livello delle emissioni di gas ad effetto serra. Ricercatori statunitensi hanno rilevato che le emissioni totali dal 1850 sarebbero tre volte superiori se non ci fosse stata tale rivoluzione e non si fossero scoperti meccanismi che hanno portato alle colture intensive; nonostante l’agricoltura moderna utilizzi quantitativi ingenti di energia e sostanze chimiche, molti meno terreni necessitano di essere convertiti per la coltivazione mediante l’eliminazione della risorsa boschiva.
“Convertire una foresta o una macchia in zona agricola genera un’enorme quantità di carbonio negli ecosistemi naturali perche poi viene ossidato e disperso nell’atmosfera” ha riferito Steven Davis del Dipartimento Global Ecology della Stanford University
“Ciò che il nostro studio dimostra è che questi impatti indiretti, come la trasformazione delle aree in terreni agricoli, superano di gran lunga le emissioni dirette che vengono dal moderno stile definito agricoltura intensiva”.
Secondo le analisi dei ricercatori senza le nuove colture ad alto rendimento – ma con la crescita della popolazione umana e di tutte le altre tendenze socio-economiche verificatesi dal 1960 – nutrire il mondo con gli attuali livelli di popolazione significherebbe utilizzare più del doppio del terreno attualmente impiegato per l’agricoltura.
Certo, l’agricoltura in questo modo avrebbe richiesto meno energia e minor uso di sostanze chimiche come i fertilizzanti, la cui produzione comporta emissioni di CO2 e il cui uso produce ossido di azoto, altro gas a effetto serra. Tuttavia, le emissioni supplementari derivanti dalla conversione delle aree di bosco hanno rilasciato il carbonio immagazzinato dagli alberi e dal suolo: potrebbe quindi essere stato questo il fattore che ha maggiormente inciso sul quantitativo delle emissioni registrate.
Soddisfare la domanda extra di alimenti avrebbe liberato circa 160 Gt (miliardi di tonnellate) di carbonio nel corso dei decenni che “corrisponde al 34% delle totali 478 Gt di carbonio emesse dagli esseri umani tra il 1850 e 2005”, quantitativo “equivalente a circa 20 anni di combustione di risorse fossili secondo i ritmi attuali”, ha osservato il dottor Davis.
La moderna agricoltura intensiva è spesso criticata per il massiccio utilizzo di sostanze chimiche, che possono avere un impatto sugli insetti, sugli animali più grandi e sulla vita vegetale nei pressi delle coltivazioni. Inoltre, il rilascio dei fertilizzanti in eccesso nei fiumi e nei laghi determina la fioritura di alghe e lo svilupparsi di “zone morte”, dove niente può sopravvivere.
Tuttavia, rigorosamente dal punto di vista delle emissioni di gas a effetto serra, l’agricoltura intensiva sembra la soluzione migliore.
“I nostri risultati vanno a sfatare l’idea che l’agricoltura industriale con i suoi prodotti petrolchimici sia intrinsecamente peggiore per il clima che soluzioni più ‘antiche’ di coltivare”, ha detto Davis.
Il Dottor Davis e il suo team suggeriscono quindi ai responsabili politici desiderosi di ridurre le emissioni di gas a effetto serra di guardare verso un ulteriore aumento della resa delle colture, che potrebbe essere più economico di altre innovazioni e meno inquinante.