Si sono ormai da settimane spente le luci e il fragore della “grande conferenza” di Copenhagen svoltasi dal 7 al 18 dicembre 2009, nella quale si sarebbero dovuti prendere accordi per rallentare i mutamenti climatici; il frenetico andirivieni di capi di stato, ministri, tirapiedi di ministri, “scienziati”, lobbysti, alti dirigenti di industrie, ambientalisti, negazionisti, non hanno fatto fare grandi passi avanti per quanto riguarda il futuro del pianeta.
Il motivo dell’insuccesso sta nel fatto che tutti gli stati della Terra, i grandi inquinatori dell’atmosfera e i piccoli stati minacciati dalle tempeste tropicali, i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo, a proposito dei mutamenti climatici, hanno interessi contrastanti. L’imputato nascosto è rappresentato dall’anidride carbonica e dai gas che vengono emessi dalle combustioni di carbone, petrolio e gas naturale, da varie attività industriali e anche dalla zootecnia.
Poi c’è un altro imputato rappresentato dalla distruzione delle foreste; gli alberi, prelevando continuamente l’anidride carbonica dall’atmosfera per la propria crescita, compensano, in parte, le immissioni industriali dello stesso gas; quando una foresta viene tagliata, cessa la funzione “depuratrice” degli alberi e anzi il carbonio presente negli alberi tagliati si libera nell’atmosfera come anidride carbonica contribuendo anche lui ai mutamenti climatici: un doppio danno. L’insieme di queste azioni, aggiunte alle modificazioni della superficie terrestre in seguito all’estensione delle terre coltivate, comporta un lento irreversibile aumento della temperatura “media” terrestre e provoca quindi dei cambiamenti nel clima dei singoli paesi e dell’intero pianeta.
I governanti riuniti a Copenhagen hanno discusso non di ecologia ma di soldi. Le azioni che alterano il clima non sono compiute, in generale, per cattiveria, ma per “lodevoli”, si fa per dire, fini economici. I prodotti petroliferi sono bruciati per far muovere le automobili e assicurare la mobilità di merci e persone e per far funzionare le fabbriche e scaldare le case. Il carbone viene bruciato per produrre l’elettricità che è una “cosa buona” perché permette di illuminare le case e di far funzionare lavatrici, frigoriferi, computers, telefonini e innumerevoli altri aggeggi. Le foreste vengono tagliate non per malvagità verso il verde, ma per vendere il legno e perché il terreno sgombrato dagli alberi può essere coltivato per ottenere piante alimentari o industriali o per estrarre i minerali dal sottosuolo.
Gli equilibri del pianeta vengono alterati, quindi, come conseguenza di operazioni considerate economicamente virtuose. Il rovescio della medaglia sta nel fatto che i mutamenti climatici si traducono in costi monetari per tutti i paesi, per alcuni più per altri meno, per quelli che inquinano tanto e per quelli che inquinano poco. I mutamenti climatici comportano periodi di siccità che rendono meno produttive le terre agricole, che fanno diminuire la disponibilità di alimenti e fanno aumentare i prezzi delle merci essenziali, soprattutto per i paesi poveri. I mutamenti climatici comportano piogge intense che spazzano via il terreno e provocano frane, e che fanno aumentare bruscamente la portata dei fiumi che escono dagli argini e allagano campi e città distruggendo ricchezza.
I mutamenti climatici fanno fondere una parte dei ghiacciai permanenti e l’acqua liquida e dolce che così si forma va ad aggiungersi a quella salata degli oceani e il livello degli oceani si innalza minacciando l’allagamento di molte zone costiere, per ora le isole turistiche dei grandi oceani, ma domani anche operosi porti e grandi città sulle rive del mare. Gli stessi paesi che hanno tratto profitto inquinando l’atmosfera e tagliando le foreste sono costretti ad affrontare dei costi privati e pubblici, chi più chi meno, anzi spesso i costi sono maggiori per chi ha inquinato di meno e viceversa.
Da quando c’è stato il primo “trattato” sui mutamenti climatici, a Kyoto, nel 1997, tutti i paesi stanno facendo i conti e le previsioni dei costi e benefici futuri e ciascuno crede che i costi da affrontare oggi per cambiare tecnologie e consumi siano maggiori dei costi evitati domani. Se, infatti, tutti decidessero di diminuire le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, dovrebbero decidere di diminuire l’uso del carbone, del petrolio, del gas naturale e tutte le merci e i servizi dipendenti da queste fonti di energia costerebbero di più. E costerebbero di più se i paesi fossero costretti a filtrare i gas inquinanti dai camini e dalle ciminiere delle centrali termoelettriche e dei cementifici e costerebbero di più i minerali, il legname, la carta e i prodotti agricoli se fosse vietato tagliare le foreste tropicali. E costerebbero di più le merci e i servizi necessari per le classi povere e i paesi poveri che diventerebbero così più poveri e si arrabbierebbero ancora di più.
Gli stessi effetti si avrebbero se si lasciasse andare avanti senza controllo il riscaldamento planetario. I paesi che traggono vantaggio dall’inquinamento responsabile dei mutamenti climatici dovrebbero essere disposti a risarcire i paesi danneggiati da tali mutamenti, un vecchio problema trattato già nel 1912 dall’economista inglese Cecil Pigou (1877-1959) nel libro “L’economia del benessere”. Per inciso nel 2009 cadono 50 anni falla morte del grande economista.
Chi immette una tonnellata di anidride carbonica nell’atmosfera deve dare qualche soldo a chi rinuncia a tagliare alberi capaci di togliere quella stessa quantità di anidride carbonica dall’atmosfera, o a chi mette sul suo camino un filtro che evita l’immissione di una tonnellata di anidride carbonica nell’atmosfera. Ci sono molte varianti di questi commerci fra chi inquina e compra il diritto ad inquinare da chi inquina di meno; in genere con il commercio del clima chi inquina continua ad inquinare alla faccia dell’ecologia, un nuovo volto del commercio delle indulgenze medievali, quelle contro cui si arrabbiò tanto Lutero.
D’altra parte l’inquinatore che deve pagare per ogni tonnellata di anidride carbonica immessa nell’atmosfera deve far aumentare il prezzo delle sue merci, siano scarpe, automobili, frigoriferi, elettricità, e quindi tutto ricade sul consumatore finale e maggiormente sulle classi povere e sui parsi poveri. Ci guadagnano soltanto le grandi società finanziarie e di assicurazioni che maneggiano il denaro delle imposte ecologiche, speculando sulle differenze internazionali dei costi dell’inquinamento, e che partecipano al grande ciclo, per dirla col linguaggio marxiano, D-E-D, denaro-ecologia-denaro.
Ma non si può pensare che ogni americano o europeo dia, per ogni chilowattora di elettricità inquinante che consuma, un soldo a un cittadino africano o asiatico; occorre un intervento degli stati tutti insieme, inquinatori e inquinati, anche se tutti disuniti nei rispettivi egoismi. Il vero oggetto dei dibattiti sul clima è il destino di ciascuno di noi: quanto costeranno il cemento o le patate o la carta; quanto i paesi ricchi saranno disposti a consumare e usare “di meno” le merci e i servizi che provocano i mutamenti climatici, saranno disposti ad aiutare i paesi poveri ad uscire dalla loro miseria senza distruggere il pianeta.
Qualche soluzione può essere cercata nella tecnologia (fonti energetiche alternative, macchinari a minor consumo energetico, filtri e depuratori, eccetera), ma l’unica soluzione può essere cercata nella giustizia, cioè nella politica, nello smantellamento dell’economia basata sul profitto privato, per la quale occorre(rebbe) un governo centrale capace di pianificare consumi e prelievi di ricchezze naturali, che usi la solidarietà per evitare di aumentare la povertà degli uomini e della natura.