L’idea di sostenibilità ambientale, applicata alla progettazione dell’housing, si delinea in un‘interessante e alternativa accezione nell’esperienza del gruppo olandese BEAR Architecten, recentemente entrato a far parte nella più ampia compagine multidisciplinare denominata KOW Architecture.
Il gruppo BEAR, infatti, cerca di sviluppare una concezione innovativa dell’abitazione contemporanea, attraverso la ricerca sperimentale delle possibili forme di integrazione dell’innovazione tecnologica. Una sfida, questa, che si concentra sulle modalità di attuazione e di diffusione della cultura dell’innovazione nella pratica quotidiana del progetto e nella costruzione progressiva di scenari che, per piccoli passi, promuovono e concretizzano nuovi modelli per l’abitare.
In questa prospettiva, il lavoro dei BEAR è da interpretare come un’indagine continua sulle nuove relazioni che intercorrono tra gli elementi materiali del processo costruttivo e le componenti immateriali e potremmo dire fluide dell’ambiente costruito. Il progetto della residenza, secondo questa chiave di lettura, è riconducibile a un percorso che supera la concezione tradizionale dell’abitazione come un rifugio, circoscritto e separato dalle forze della natura, per assumere, al contrario, il ruolo di luogo in cui rintracciare nuove relazioni tra spazio, involucri architettonici e flussi di energia, sia nella dimensione dell’edificio che in quella più ampia dell’insediamento.
Lo spazio perimetrale della residenza, nelle loro proposte, si configura, a volte, come una vera e propria membrana che tende a relazionare le spazialità abitative interne con le dinamiche esterne del sito, mediante il controllo di flussi di materia, informazioni ed energia. Altre volte, il tema della chiusura dello spazio residenziale è sviluppato come un sistema fluido di mediazione e di delimitazione degli ambiti spaziali abitativi, senza anteporre barriere fisiche, ma configurando superfici o volumi che si prestano ad accogliere usi e modificazioni successive nel tempo, non necessariamente previste dal progetto.
Nelle sperimentazioni del gruppo BEAR tutto ruota intorno all’idea della costruzione di involucri abitativi nei quali il fattore energetico è visto in un’accezione ampliata, non esclusivamente legata a una dimensione termodinamica.
È in quest’ottica che la loro concezione bioclimatica del costruire si affianca alla ricerca progettuale, per trasformare in spazio i flussi di energia che attraversano edifici, giardini e quartieri. La loro stessa idea di architettura che reagisce alle sollecitazioni del contesto, sotto l’aspetto energetico e termico, tende a reinterpretare il tema dell’involucro residenziale come spazio di mediazione; uno spazio in cui l’innovazione, nell’uso dei materiali e delle soluzioni costruttive, diventa occasione per manifestare un campo di possibilità di adattamento, di evoluzione e di potenziamento delle prestazioni dell’edificio, senza mai comprometterne gli aspetti fondativi e costruttivi elementari. Invertendo le logiche contemporanee dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico “a tutti i costi”, possiamo sostenere che il lavoro dei BEAR mira a focalizzare un cuore della costruzione, nel senso più tradizionale del termine, ma sul quale si stratificano, in modo reversibile, membrane di interfaccia che modellano lo spazio.
L’architettura dei BEAR, in tal modo, conserva sempre le sue qualità di architettura passiva, in grado di assecondare le variazioni esigenziali, climatiche e tecnologiche senza mai diventare schiava della tecnologia.
È possibile ricostruire, sinteticamente, questo percorso progettuale facendo riferimento ad alcune esperienze significative del loro lavoro. In esse si evidenzia un atteggiamento che lascia trasparire tre aspetti della pratica progettuale destinati – con molta probabilità – ad assumere, nei prossimi anni, una centralità sempre maggiore nei processi di costruzione delle residenze.
Il primo di questi aspetti è riconducibile alla ricerca di livelli differenti e progressivi di compromesso progettuale sul tema della residenza che abbiano la forza di generare le condizioni ottimali per l’integrazione dei nuovi componenti tecnologici nel paesaggio antropizzato. È il caso dei progetti elaborati per le Case solari di Langedijk (2000) o per le Residenze “Zero Energy” a Etten-Leur (2002). In questi esempi, atti progettuali minimi e ragionevoli, ponderati rispetto alle richieste dell’utenza, sembrano agire esclusivamente su pochi ed essenziali elementi costruttivi. Lo spazio dell’involucro si modella attraverso lievi contaminazioni linguistiche che denunciano la presenza dell’innovazione (tecnologie solari termiche e fotovoltaiche e serre solari, coperture inerbite) e del cambiamento delle logiche funzionali della casa, ma senza inutili e gratuite enfasi formali.
Il secondo aspetto emergente dalle esperienze dei BEAR è il lavoro compiuto sulla costruzione e sulla ri-costruzione delle relazioni tra le forme d’uso dell’edificio residenziale e i suoi spazi interni ed esterni. Nelle abitazioni a schiera, realizzate a Zoetermeer (2000), gli spazi di connessione ottenuti con serre, atri e ampie volumetrie trasparenti, riconducono i flussi ambientali e le dinamicità dell’edificio a una dimensione spaziale molteplice nella quale, in un certo senso, è possibile percepire la fluidità dei campi energetici. L’accettabilità dell’innovazione tecnologica nella dimensione della casa ricopre un ruolo centrale in questo intervento, perché il progetto mira a dimostrare agli utenti, ma anche a chi percepisce l’edificio dall’esterno, come le nuove tecnologie per la sostenibilità della residenza assumano enfasi nel rendere abitabile l’involucro edilizio, quindi fruibile ciò che tradizionalmente è stato sempre concepito come elemento opaco e pieno.
Il progetto tende a configurare lo spazio dell’involucro nella sua essenza di cavità reattiva, vissuta e in continua evoluzione rispetto ai fattori ambientali.
Il terzo aspetto è da rintracciare nella ricerca progettuale condotta sulle forme ibride di configurazione degli involucri residenziali. Nelle “Noise Barrier Houses” di Dordrecht (1996) o negli interventi nel quartiere Niewland ad Amerfoort (1999) e “De Groene Kreek” a Zoetermeer (2006) lo spazio abitativo arriva a coincidere con l’involucro stesso, negando la distinzione tradizionale tra interno ed esterno, tra dentro e fuori.
Il limite dell’involucro residenziale, attraverso l’impiego di tecnologie deboli, riconduce l’essenza attiva e passiva dell’edificio in un unico organismo integrato e si ibrida con forme del paesaggio altamente tecnologiche ma anche estranee all’architettura come dune, dighe, infrastrutture viarie.
Lo spazio-involucro della casa risulta quasi assorbito dal sito e dalla natura, oppure muta nelle sue geometrie e forme al variare degli usi. Si interpone come spazio attivo dell’architettura e si compenetra con le volumetrie degli edifici e del paesaggio. L’involucro sembra rievocare, a tratti, l’archetipo delle architetture ipogee, ma l’utente è completamente immerso nel suo spazio, ne è come avvolto.
I componenti del gruppo BEAR amano spesso precisare nelle descrizioni dei loro lavori, lo spirito del learning by doing che diviene un aspetto centrale per definire una progressiva integrazione del nuovo nella modellazione del paesaggio costruito. Ma sarebbe a questo punto più logico parlare di un atteggiamento propositivo tecnologicamente consapevole che rintraccia nel progetto le occasioni per scrivere un testo aperto sulle pratiche dell’innovazione dell’abitare.
In questa direzione, il gruppo BEAR indica un possibile approccio intermedio ai problemi della sostenibilità della residenza, mostrandoci una visione umanizzata dell’innovazione e una dimensione progettuale libera dai miraggi tecnologici.
di Filippo Angelucci – Università degli Studi G. d’Annunzio Chieti-Pescara