“90-Billion Biofuel Deployment Study” è il titolo dello studio condotto da Sandia National Labs e General Motors e pubblicato nei giorni scorsi. L’obiettivo era quello di valutare il potenziale di produzione (sostenibile da un punto di vista economico, sociale e ambientale) USA di biocarburante cellulosico. Dopo nove mesi di lavoro, le conclusioni dei ricercatori indicano che, entro il 2030, l’etanolo prodotto da rifiuti vegetali e forestali e da colture energetiche sostenibili potrebbe coprire quasi un terzo dei consumi di benzina degli Stati Uniti.
I 90 miliardi di galloni di etanolo necessari a sostituire 60 miliardi di galloni di benzina (stima del consumo al 2030: 180 miliardi) proverrebbero, secondo lo studio in questione, per 75 miliardi di materie prime cellulosiche – cioè ‘no-food’ – e per 15 miliardi dal mais. Più in particolare, le principali fonti di produzione dei biocarburanti considerate nello studio sono: residui agricoli (provenienti dalla coltivazione di mais e grano), residui forestali, colture energetiche dedicate (es. erbe di prateria) e colture legnose a breve rotazione (es. salice e pioppo). Non sono considerate le alghe. Da un punto di vista di sostenibilità economica, lo studio ha analizzato i costi di produzione, raccolta, stoccaggio e trasporto di queste colture e dalla costruzione di nuove bio-raffinerie. E’ interessante individuare, dal lavoro dei ricercatori, i principali fattori che renderebbero raggiungibili i risultati prospettati: lo sviluppo delle bio-raffinerie di seconda generazione e la “rotazione breve” delle colture.
Le prime già in fase di sviluppo, usano materiali ligneo cellulosici che non fanno concorrenza ai prodotti alimentari. Due sono i principali processi: in un primo caso, si parte dalla paglia, che viene tratta con vapore ad alta pressione. La separazione della parte acquosa permette l’estrazione di lignina, emicellulosa e cellulosa. Mentre con la lignina (legno) si possono produrre energia e biopolimeri, cellulosa ed emicellulosa fermentano e producono etanolo. Nel secondo caso, il processo parte da substrati amidacei: l’idrolisi sostituisce il trattamento ad alta pressione. Al di là della descrizione del processo le bioraffinerie di 2nda generazione sono interessanti anche perché possono permettere a Paesi con foreste tropicali di diventare produttori di bioetanolo. In Brasile (che da diversi anni produce etanolo a partire dalla canna da zucchero), è stato un sistema di regolamentazione elettronica della carburazione e della combustione, che consente alle auto di bruciare 100% benzina, 100% etanolo e qualsiasi miscela intermedia.
Non meno interessanti sono le prospettive della “rotazione breve” delle colture (“Short Rotation Forestry”). Si tratta di un insieme di tecniche per aumentare la resa per ettaro di una limitata biomassa, con limitati costi energetici. E’ già realtà anche in Italia e tra le specie arboree più interessanti figurano il pioppo, la robinia e l’eucalipto. Un caso interessante ha visto l’impiego di un tipo selezionato di pioppo “ibridizzato”, studiato per l’Italia Centro-Settentrionale e ottenuto attraverso incroci di pioppi provenienti da varie regioni del mondo. Grazie soprattutto alle caratteristiche di resistenza ai parassiti, siccità e prevalenza del fusto, è stato possibile aumentare la resa per ettaro da 10 a 30-40 tonnellate l’anno, con una rapidità di accrescimento che ne consente il taglio ogni due anni. La meccanizzazione del ciclo produttivo (trapianto, taglio, cippatura) contribuirà a diminuire gli attuali costi, ancora tendenzialmente superiori alle altre biomasse.
In realtà l’interesse di oggi per la Short Rotation Forestry va ben oltre la produzione di biocarburanti: queste tecniche permettono infatti di migliorare l’utilizzo delle biomasse, facilitando il dimensionamento della centrale (in base al quantitativo atteso di combustibile prodotto da territorio) e stabilizzando il processo di combustione attraverso una quota fissa di colture ibridizzate. Inoltre con piccole centrali a biomassa, da 1 a 5 MW, per la produzione combinata di energia elettrica e calore, è possibile attivare sul territorio una piccola filiera locale (es. coltivatori di essenze ibridizzate, serre per l’utilizzo del calore della centrale, meccanizzazione del ciclo produttivo delle essenze, produzione di pellet…). La coltivazione di nuovi genotipi è un banco di prova per la ricerca di forme di ibridizzazione sempre più sofisticate. In Italia abbiamo centinaia di migliaia di ettari “set aside” (non coltivabili per limitare la produzione, in base agli accordi con la Comunità Europea). Destinare una parte a Short Rotation Forestry sarebbe una formula interessante per lo sviluppo del territorio.
In conclusione lo studio di Sandia e General Motors, mosso dall’obiettivo nazionale di limitare la dipendenza dal petrolio, ha individuato anche alcune direttrici per lo sviluppo tecnologico nel settore biomasse. Direttrici che possono correttamente impiegate, costituire l’innesco di piccole realtà industriali distribuite.
_Con la collaborazione di Alfonso Calabria_