In un articolo di “repubblica.it” oggi si fa il punto del mercato che non c’è. La borsa dell’assenza, o meglio della “non produzione” di Co2. Già perchè il mancato inquinamento (cioè la non immissione nell’atmosfera di anidride carbonica) non solo ha un suo valore, diciamo così etico-ecologico, ma ne può vantare un ben più concreto, misurabile in euro e il cui valore viene appunto determinato da una vera e propria borsa. Insomma chi produce meno Co2 di quello che dovrebbe, può vendere una sorta di titoli, o meglio certificati, che permettono a chi, al contrario, ha immesso più Co2 del dovuto, di pareggiare i propri conti. Basta infatti che compri una quantità dei certificati messi sul mercato da produttori virtuosi, tale da compensare le proprie emissioni eccedenti.
Il volume di questa borsa, spiega Maurizio Ricci, l’autore dell’articolo di “repubblica.it”, stato nello scorso anno di 1.600 milioni di tonnellate di mancate emissioni di Co2 con un fatturato di oltre i venti milioni di euro nel 2006. Certo niente rispetto al mercato del petrolio che vede trattare una cifra del genere circa in una settimana, ma , come si dice, l’importante è crescere e, se guardiamo al giro d’affari del 2005, vediamo che allora i milioni erano la metà. Quindi in trend è decisamente in crescita.
Come in tutte le borse che si rispettano poi ci sono trader e analisti finanziari che fanno previsioni sul futuro.
Domani saremo più inquinatori o più “puliti”?
Ci sarà maggiore o minore richiesta dei certificati di “mancata emissione di Co2”? Sarà più forte la domanda o l’offerta?
E’ chiaro che i cosiddetti rialzisti, ci spiega sempre Ricci, credono che inquineremo sempre più e che quindi il costo dei certificati salirà: oggi immettere nell’atmosfera una tonnellata di Co2 costa 22 euro, tra un anno o due si arriverà a pagarne 30.
I “ribassisti”, che sono invece fiduciosi in un futuro di minori emissioni, stimano che nel 2008/2009 la richiesta scenderà, e di conseguenza anche i prezzi, e prevedono un costo di 20 euro.
In questo range, tra 20 e 30 euro, balla un bel valore. Nel primo caso infatti converrà, a chiunque produca emissioni, comprare certificati, invece di investire capitali per ammodernare le proprie tecnologie.
Nel secondo caso invece i certificati costerebbero molto e comunque più della spesa per l’adeguamento delle proprie tecnologie ad un livello di emisssioni più basso.
Questa forbice di prezzi è molto importante perchè indica la convenienza o meno di chi emette Co2 ad adeguarsi alle normative o invece a comprare certificati.
Ma, come in ogni mercato che si rispetti, più certificati verranno richiesti più salirà il loro prezzo.
Questa introduzione di un tetto e del mercato dei certificati, in vigore nella Ue dall’inizio del 2005, riguarda 12.000 aziende di vari settori e costituisce un fenomeno prettamente europeo.
Non tutti sono d’accordo con questo sistema e c’è chi pensa che tassare la produzione di Co2 sarebbe una soluzione più adeguata. Ad esempio Tim Harford, l’inglese autore di “The undercover economist” afferma “Con la tassa sai il prezzo della Co2, ma non la quantità di emissioni che ci saranno. Con il tetto, oltre il quale devi andarti a comprare il diritto ad emettere, sai quante emissioni ci saranno complessivamente, ma non il prezzo, che può oscillare anche molto. Questo secondo sistema è più pericoloso per i costi delle aziende e non può essere regolato, secondo necessità, agevolmente e rapidamente”.
Gli esperti del Mit di Boston calcolano che, solo con un prezzo dell’anidride carbonica intorno ai 25 euro la tonnellata, prodotto con tecnologie nuove, come l’isolamento e il seppellimento dell’anidride carbonica di una centrale a carbone, per solare e eolico, a questi valori, diventerebbero inutili aiuti ed incentivi. (fonte Repubblica.it)