Rinnovabili

Il futuro del fotovoltaico nostrano

Nel momento in cui anche in Italia si è riaperta la questione nucleare, occorre evitare che la controversia si riproponga più o meno negli stessi termini degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Allora si è combattuta un’autentica guerra di religione, come è noto conclusasi con la fuoriuscita dell’Italia dal nucleare senza però che questa scelta si traducesse nello sviluppo delle rinnovabili. Si può anzi affermare che, mentre ad esempio la Germania a partire dal 1991 varò normative che hanno sostenuto in modo continuativo ed efficace lo sviluppo delle nuove fonti rinnovabile (e il Giappone non è stato da meno), l’ultimo decennio del secolo scorso rappresentò per l’Italia un periodo di provvedimenti insufficienti e contradditori (si pensi alla legge 9/91 da cui è scaturito il CIP 6), inefficaci (come la legge 10/91), di continui _stop and go_ (in realtà più _stop_ che _go_). Insomma, un periodo sostanzialmente negativo per le rinnovabili, che ha contribuito non poco a ridimensionare e in qualche caso a distruggere quel tanto di presenza industriale che faticosamente il sistema Italia era riuscito a creare.
Solo negli 2000 si è gradualmente messo a punto un quadro di riferimento normativo sufficientemente organico, i cui primi frutti si incominciano ora a vedere. Quadro di riferimento che attende di essere completato con il varo di un certo numero di decreti attuativi previsti dalle leggi 222/07 e 244/07, e, per quanto concerne la promozione dell’utilizzo delle fonti rinnovabili per la produzione di calore e freddo, anche dal decreto. legislativo. 311/06
Ciò che va garantito per il futuro delle rinnovabili è quindi innanzi tutto la stabilità del quadro di riferimento messo così faticosamente a punto, condizione che ovviamente comporta anche l’intangibilità dei criteri attraverso i quali si è deciso di finanziare il loro sviluppo. Una garanzia necessaria non ai fini di una difesa corporativa di posizioni acquisite, ma per salvaguardare le prospettive energetico- ambientali del nostro paese.
Non esistono infatti altre soluzioni in grado di consentire all’Italia di realizzare gli obiettivi in materia già fissati o in corso di definizione in sede europea. D’altra parte basta l’aritmetica elementare per rendersi conto che anche nell’improbabile ipotesi di un ritorno “soft” del nucleare in Italia, i tempi tecnici richiesti per la sua implementazione impedirebbero di ottenere un solo kWh da tale fonte entro il 2020. Va innanzi tutto ricostituita all’interno dell’APAT una struttura professionale in grado di valutare un impianto nucleare sotto il profilo della sicurezza e dell’impatto ambientale (almeno 3-4 anni per la selezione e il training del personale); tale struttura, una volta operativa, dovrà esaminare le singole proposte di realizzazione di impianti nucleari, compito che per la sua complessità non è esauribile in tempi contenuti (nella nuclearissima Francia ci vogliono due anni per licenziare un impianto); la costruzione e il commissioning dell’impianto, come dimostrano i dati statistici degli ultimi decenni e quanto si sta verificando sui due impianti in costruzione in Finlandia e in Francia, richiedono almeno otto anni. Nella migliore delle ipotesi a partire da oggi come minimo ci vogliono insomma 13-14 anni, sempre che si riesca parallelamente a risolvere _problemini_ come l’identificazione di un sito idoneo allo stoccaggio dei rifiuti radioattivi e la sua successiva realizzazione, e di siti tecnicamente e socialmente in grado di ospitare un impianto nucleare.
Per rispettare gli obblighi al 2020 assunti a livello europeo, la priorità va quindi assegnata al programma di sviluppo delle rinnovabili, così come è esposto nel _position paper_ del governo italiano. Ad esso non può dunque mancare il necessario ossigeno normativo e finanziario. In altri termini, con riferimento alle recenti dichiarazioni di Enel e di Edison (il nucleare è in grado di produrre energia elettrica a costi inferiori dei cicli combinati a gas) va chiarito se le valutazioni di queste imprese includono nel computo anche voci come gli oneri per la gestione dei rifiuti radioattivi o il decommissioning. Se questi o altri costi fossero esclusi, a parte le riserve che è legittimo avere verso un’opzione tecnologica che dopo più di cinquanta anni dall’entrata in esercizio del primo impianto per reggersi ha ancora bisogno dell’intervento pubblico, dovrebbe essere subito chiarito a quanto ammontano le risorse necessarie per finanziare le attività non a carico delle imprese, e dove lo stato intende reperirle, fermo restando che esse non devono andare comunque a detrimento di quelle, prioritarie, da destinare allo sviluppo delle rinnovabili. Considerazioni analoghe valgono ovviamente per le attività di ricerca.
Perché una posizione come quella sin qui espressa sia credibile, va però data una risposta convincente anche alle ormai frequenti accuse alle rinnovabili di costare troppo. Uno dei più recenti interventi in tal senso, oltre tutto di grande impatto per l’autorevolezza dell’istituzione da cui proviene, è la relazione tenuta all’ultimo Solarexpo da Marco Pezzaglia, della Direzione Mercati dell’Autorità per l’energia.
Obiezioni di questa natura e di questo peso non sono liquidabili con degli anatemi. Occorre invece serenamente e razionalmente confrontarsi non tanto con le conclusioni raggiunte da siffatti lavori, quanto con le ipotesi di lavoro assunte. Le analisi e i calcoli portati a supporto della tesi “le rinnovabili costano troppo” assumono infatti uno scenario “a bocce ferme”. Ipotizzano cioè che *di qui al 2020 non ci siano riduzioni dei costo in nessuna delle tecnologie oggi incentivate*. Il che non è: per motivi professionali ho potuto leggere le analisi di due importanti istituzioni finanziarie internazionali, volte a indicare ai clienti dove investire nel settore energetico. Ad esempio per paesi europei favoriti in termini di irraggiamento solare, come Spagna Italia Grecia, entrambe concordano nell’individuare appena dopo il 2010 la soglia di competitività per l’energia prodotta da installazioni fotovoltaiche integrate nell’edilizia rispetto a quella erogata dalla rete. Eppure si tratta della tecnologia oggi maggiormente lontana dalla competitività.
Prospettive così favorevoli non possono però essere utilizzate per fare di ogni erba un fascio. I successi, quelli prevedibili o già in essere (si pensi all’eolico), obbligano semmai a un’analisi attenta e severa di quali sono le tecnologie in grado di raggiungere in tempi ragionevoli costi di mercato (inclusivi di quelli ambientali) e quali viceversa non presentano analoghe prospettive. Proprio per contrastare con efficacia la tesi delle rinnovabili troppo costose non si può infatti sfuggire all’esigenza di abbandonare la logica alla lunga perdente, secondo la quale “tutte le tecnologie per le rinnovabili sono uguali e vanno ugualmente difese”, a favore dell’orwelliano “alcune sono più uguali di altre”.
Questo salto di qualità è realizzabile ricorrendo a un _technology assessment_ per le fonti rinnovabili realizzato da un pool di esperti internazionali che, sulla base di parametri condivisi (fra cui _in primis_ le potenzialità intrinseche di miglioramento delle singole tecnologie nei contesti per loro più appropriati), consenta di quantificare in modo convincente l’effettivo impegno finanziario richiesto nei prossimi anni, individuando per ciascuna tecnologia l’orizzonte temporale oltre il quale presumibilmente potrà camminare con l’unico ausilio delle proprie gambe. E, quando ritenuto necessario, ridimensionando eventuali opzioni che fossero state inserite fra quelle incentivabili in modo grossolano e affrettato.
Insomma, per le nuove rinnovabili l’acquisizione della maturità tecnico-economica non può prescindere da un preventivo adeguamento paradigmatico da parte del mondo scientifico e imprenditoriale impegnato nello loro sviluppo, il quale deve convincersi che la partita delle rinnovabili non la si vince moltiplicando i no al nucleare, e alzando ogni volta di più la voce, ma se si è capaci di contrapporgli le soluzioni più credibili e di più agevole attuazione.

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