Al fine di ridurre le emissioni di CO2 e favorire l’indipendenza energetica ed un nuovo mercato economico, molti Paesi Europei stanno promuovendo l’utilizzo di biomasse di origine vegetale per la produzione di energia (di seguito citate anche come biofuel).
Com’è infatti noto, la Commissione Europea promuove l’utilizzo di energie rinnovabili, proponendo per il 2020 un utilizzo del 20% di energia proveniente da energia rinnovabile. In questo ambito, diverse Direttive e Strategie promuovono l’utilizzo di energia biofuels sia per trazione che per l’elettricità, indicandone l’uso al fine di ridurre le emissioni di gas serra. Anche la stessa PAC, sia nel primo che nel secondo pilastro, favorisce le coltivazioni per il biofuel.
Le biomasse vengono promosse come energie sostenibili in quanto bilanciano la produzione di CO2 riemettendo nell’atmosfera l’anidride carbonica fissata dalla pianta nelle stagioni immediatamente precedenti, utilizzando così CO2 fresca invece che fossile.
Agli innegabili vantaggi dell’utilizzo di questa fonte energetica sono però collegati diversi svantaggi, sia sociali (principalmente di sovranità alimentare) che ambientali. Questi ultimi riguardano in particolare il cambiamento dell’uso del suolo e l’impatto di pesticidi e di fertilizzanti.
L’Agenzia Europea per l’Ambiente ha prodotto diversi documenti a riguardo ^[1]^ e recentemente ha proposto una sospensiva al target del 2020 in attesa di uno studio ecosistemico sull’impatto delle coltivazioni per biofuel sull’ambiente.
Vorrei mettere in luce un aspetto meno immediato del danno che alcune colture energetiche potrebbero arrecare agli habitat ed alla biodiversità naturale: molte specie proposte per le coltivazioni biofuel hanno, infatti, caratteristiche tali da essere considerate potenzialmente invasive ^[2, 3, 4]^ ed andrebbero quindi attentamente considerate tutte le ripercussioni che la loro introduzione implica per gli ecosistemi in cui potrebbero espandersi.
*L’invasività della specie* Affinché una specie vegetale possa essere efficiente per la produzione di biomassa è necessario che abbia caratteristiche eco-fisiologiche tali da renderla un’ottima specie competitrice, tali caratteristiche sono: elevata riproduzione (sia da seme che vegetativa), rapida crescita, resistenza a patogeni ed ampie capacità di adattamento ecologico. Molte di queste caratteristiche sono state, tra l’altro, accresciute grazie a miglioramenti genetici per l’aumento della resa e l’ottimizzazione della produzione.
Le specie invasive diventano un danno per l’ambiente in particolare quando tendono a competere ed a sostituire la vegetazione spontanea, alterando gli ecosistemi naturali e arrecando danno alla biodiversità, nelle aree semi-naturali e nei residui di vegetazione all’interno degli agroecosistemi.
*L’invasibilità dell’ambiente* I sistemi agricoli sono particolarmente suscettibili alle invasioni biologiche: degrado, frammentazione, alterazione del ciclo idrogeologico e dei nutrienti, presenza di habitat disturbati e di terreni di riporto favoriscono, infatti, l’invasività delle specie. Inoltre, molti vettori presenti nelle aree agricole, dal trasporto merci ai coltivi abbandonati, favoriscono la dispersione dei propaguli delle specie invasive.
*Il regime colturale* La previsione, sul territorio Italiano, di estese coltivazioni di specie da biomassa e di un loro reimpianto annuale, favorito anche dalla presenza di sussidi economici potenzialmente non collegati alla raccolta e/o produzione di energia, sono elementi che vanno a favore di un adattamento e naturalizzazione delle specie utilizzate. In aggiunta, molte delle coltivazioni ad uso annuale come ad esempio il panico, il sorgo, il cardo, che vengono utilizzate per l’enerigia termica, per praticità di raccolta e stoccaggio vengono lasciate nel campo fino alla fine del loro ciclo vegetativo. Questo favorisce la raccolta di fitomassa secca ma anche la dispersione dei semi e la conseguente fuga “da coltivo”. Anche l’utilizzo di specie con wild relatives, come ad esempio il cardo evolutosi dal pool genetico del carciofo selvatico, possono arrecare danno alla biodiversità in quanto se da una parte la cultivar ha il vantaggio di essere adattata all’ambiente, dall’altra questi sono genotipi ‘estranei’ appositamente selezionati per riprodursi; in aggiunta possono essere interfertili e “inquinare geneticamente” la specie nativa originaria. Molte specie proposte per biomassa, non hanno in Italia un produzioni colturali già esistenti e non se ne conosce, di conseguenza, la potenziale invasività al di fuori del coltivo.
*La valutazione* Le coltivazioni per biomassa non si sono ancora ben sviluppate sul territorio italiano e va considerato che l’invasività di una specie può emergere anche a decenni dalla sua prima introduzione a scopi agricoli. D’altra parte però, non tutte le specie proposte sono potenzialmente invasive. Per questo motivo l’ex APAT (ora ISPRA) ha realizzato un adattamento per l’Italia centrale, a clima mediterraneo, della valutazione del rischio di invasività delle specie vegetali (WRA-Weed Risk Assessment) già in uso in altri paesi. Il metodo si basa su un’analisi della biogeografia, dei dati storici, della biologia ed ecologia delle specie. Lo schema di valutazione prevede 49 domande alle quali viene restituito di un punteggio dove a valori alti corrisponde elevata invasività. L’adattamento è stato successivamente applicato alle specie utilizzate per il biofuel [5]: i risultati hanno valutato come potenzialmente invasive alcune specie attualmente già coltivate ed altre per le quali al momento non esiste un regime colturale in Italia (v. Tabella).
*La mitigazione* Scopo principale della valutazione è stata l’individuazione di quelle specie potenzialmente invasive, per le quali sono fornite indicazioni colturali al fine di ridurne il rischio di “fuga da coltivo” o scoraggiarne la coltivazione. Dallo studio è emerso ad esempio che la coltivazione di specie arboree per la SRF quali Acacia spp (Foto 1), ailanto e robinia andrebbe scoraggiata. In alternativa andrebbe realizzato, in fase di raccolta, il taglio delle infiorescenze.
Tecniche colturali che riducono la produzione di semi, come ad esempio il taglio dei capolini fiorali per il cardo, sono suggerite per le piante che si riproducono sessualmente. Un altro modo per mitigare il rischio di invasività è la scelta di regioni con condizioni climatiche tali da non permettere lo sviluppo del seme: la Kochia scoparia, ad esempio, non fiorisce a temperature medie sotto i 15 °C, mentre il Kenaf necessita di almeno 60 giorni senza gelo per permettere la maturazione dei semi.
Al fine di monitorare l’eventuale dispersione delle piante al di fuori delle coltivazioni sono necessarie azioni di monitoraggio nelle aree circostanti le coltivazioni a rischio, ed è necessaria una appropriata gestione dei vettori di trasmissione, sia naturali che antropici. Lo studio del paesaggio, l’analisi dei vettori di trasmissione e l’utilizzo di tecniche colturali che riducono la produttività del raccolto, pur rendendo meno efficiente la resa energetica ed economica della specie, sono azioni di mitigazione necessarie al fine di ridurre e controllare l’impatto di specie potenzialmente invasive, dannose per gli habitat dei residui di vegetazione spontanea e semi-naturale (Foto 2).
Tutte queste forme di valutazione e mitigazione, per essere concretamente efficaci necessitano ovviamente di una strategia comune adottata a livello ecoregionale al fine di poter utilizzare in maniera sostenibile questa fonte energetica.
*Note*
^[1]^ “EEA Report No 7/2006”:https://www.eea.europa.eu/publications/eea_report_2006_7
^[2]^ “Adding Biofuels to the Invasive Species Fire?”:https://www.bio.ilstu.edu/anderson/Raghu_et_al_2006%20Final%20published%20article%20September%2022%202006.pdf)
^[3]^ “Scienziati avvertono: biocarburanti, attenzione alle specie invasive”:https://www.rinnovabili.it/scienziati-avvertono-biocarburanti-attenzione-alle-specie-invasive-701243
^[4]^ “The biofuel wedy menace”:https://www.rinnovabili.it/file_download/10
^[5]^ “Atti Convegno APAT”:https://www.rinnovabili.it/file_download/11