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Come imprigionare la CO2 in fondo agli oceani

Sacchetti pieni di CO2 liquida a più di tre chilometri di profondità. Ecco l’ultima idea in fatto di sequestro di uno tra i gas maggiormente responsabili dell’effetto serra

Da qualche tempo l’oceano viene particolarmente studiato quale possibile “area di stoccaggio” del biossido di carbonio: sedimenti porosi localizzati qualche centinaia di metri al di sotto dei fondali o fertilizzazione delle acque marine col ferro sono alcune delle ipotesi finora proposte. D’altra parte già il mare fa la sua parte nel sequestro della Co2 dall’atmosfera, grazie alla naturale capacità dell’acqua marina di assorbire biossido di carbonio. Ma ora, secondo il Dr. David Keith, direttore della Energy and Environmental Systems Group presso l’Università di Calgary, il surplus di gas potrebbe essere preso direttamente dalle industrie e centrali che lo producono, ed una volta convertito allo stato liquido potrebbe essere trasportato attraverso tubi in fondo all’oceano, all’interno di giganteschi sacchetti polimerici. Una sorta di “salsicciotti” in grado di ospitare fino a 160 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, circa quello che viene prodotto in 2 giorni e mezzo di emissioni globali. Le basse temperature connesse alle alte pressioni dei fondali marini farebbero permanere la CO2 in fase liquida, e quindi inattiva. I mezzi di contenimento, costruiti con polimeri esistenti e quindi molto economici, servirebbero invece ad impedire che il diossido di carbonio si mescoli alle acque, alterando l’ecosistema marino. Tuttavia, precisa il Dr. Keith, “lo studio è ancora alle prime fasi, e non c’è ancora nessun progetto in via di sviluppo”.