Quindicimila barili di petrolio si sono riversati in mare a seguito dello scontro tra una petroliera e una nave cargo. Equipaggi e imbarcazioni private stanno operando per evitare una nuova catastrofe dopo il disastro di Deepwater Horizon
E’ di nuovo allarme rosso o meglio “nero”. Dopo la disastrosa rottura della piattaforma BP nel Golfo del Messico, ora, a infliggere nuovi danni sull’ambiente e mantenere alto il livello di criticità è la collisione avvenuta tra due navi a largo delle coste di Singapore. Questa mattina alle ore 6 locali la petroliera malese MT Bunga Kelana 3 si è scontrata con il cargo MV Wally registrato a St Vincent e Grenadine determinando disastrose conseguenze: lo squarcio di 10 metri riportato dalla cisterna ha causato la fuoriuscita di 2 mila tonnellate di greggio a circa 13 chilometri dalla costa. Nessun ferito negli equipaggi e traffico navale indenne sono per adesso le buone notizie, soprattutto in considerazione del tratto di mare in questione, punto nevralgico del commercio marittimo asiatico; le autorità portuali e marittime di Singapore hanno, inoltre, fatto sapere che le squadre di soccorso si sono già lanciate nelle prime operazioni di contenimento e pulizia.
In casi come questi la tempestività risulta essere un fattore determinante e per una nave con una portata lorda di ben 105.784 tonnellate l’impatto ambientale può considerarsi abbastanza “contenuto”; eppure il nuovo incidente inevitabilmente riaccende quei timori e preoccupazioni mai sopite in merito alla sicurezza dei trasporti marini e degli impianti estrattivi del greggio.
A dare manforte, lo stato attuale della “marea nera”, ben lontano dal poter proclamare il cessato allarme, e il vortice di accuse che si sta trascinando dietro: da una parte gli Usa che puntano il dito contro la compagnia petrolifera minacciandola di sollevarla dalle operazioni, dall’altra le amministrazioni locali e l’opposizione politica (su tutti il preoccupato Governatore della Louisiana, Bobby Jindal, e la repubblicana Sarah Palin) che si scagliano contro Obama denunciando una reazione troppo debole e addirittura alludendo a presunti “contributi e sostegni” ottenuti dall’amministrazione in carica dalle compagnie petrolifere.
Le soluzioni messe sul tavolo convincono e non convincono: il direttore esecutivo Doug Suttles è fiducioso che della riuscita dell’operazione soprannominata “top kill”, vale a dire fermare la fuoriuscita di greggio iniettando liquidi pesanti direttamente nelle profondità del pozzo. Le probabilità di riuscita, come riportato da Suttles, sarebbero del 60-70% non avendo mai sperimentato questa tecnologia a tali profondità e in caso di non riuscita si tenterebbe con il posizionamento di una cupola sulla falla maggiore o sigillarla ‘sparando’ pezzi di gomma. Di concreto c’è l’impegno della società a investire fino a 500 milioni di dollari per studiare l’impatto ambientale del disastro. “Dobbiamo compiere ogni sforzo – ha dichiarato ai giornalisti il Ceo – per capire questo impatto. Questo sarà il punto di partenza di un processo di recupero e del miglioramento della capacità di risposta della società nel futuro”. La falla intanto è arrivata a toccare oltre 110 chilometri di costa tenendo sotto scacco l’ecosistema litorale di Louisiana, Mississippi, Alabama e Florida, secondo quanto riportato dalla Guardia Costiera e, appelli ambientalisti a parte, nulla è apparentemente cambiato.