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Centrali a zero emissioni, realtà o fantasia?

L’innovativa tecnologia per catturare ed immagazzinare la CO2 sembra rendere compatibile l’uso dei combustibili fossili con il rispetto dell’ambiente, ma non è priva di serie problematiche

I combustibili fossili rappresenteranno ancora per parecchi decenni le principali fonti energetiche mondiali. Ciò significa che le quantità di gas serra, e in particolare di anidride carbonica (CO2), presenti in atmosfera aumenteranno ulteriormente, accelerando quindi il riscaldamento globale già in atto.
Tra le soluzioni che si stanno mettendo a punto per contenere le emissioni, la cattura e l’immagazzinamento geologico dell’anidride carbonica (o CCS dall’inglese CO2 Capture & Storage) rappresenta quella più innovativa e interessante perché permetterebbe di eliminare il problema alla radice.
Il sistema è apparentemente semplice. La CO2, emessa da centrali termoelettriche o raffinerie, viene separata dai fumi di scarico mediante processi fisico-chimici, concentrata e compressa in fase liquida e successivamente trasportata, mediante tubazioni, dalla centrale al luogo di stoccaggio, dove viene iniettata nel sottosuolo in idonei depositi naturali profondi e permanenti.
Le tecnologie attualmente disponibili permettono di catturare dall’85 al 95% delle emissioni di CO2 di un impianto. In futuro si prevede di arrivare al 100% con centrali a zero emissioni.
La cattura può essere effettuata post o pre combustione. Nel primo caso si fa _adsorbire_ la CO2 presente nei fumi di scarico su un liquido amminico ( _l’adsorbimento_ è il fenomeno per cui una sostanza chimica aderisce e si concentra sulla superficie di un liquido o di un solido). Nel secondo caso si diminuisce il tenore di carbonio del gas naturale o del carbone (gassificato) prima del loro invio a combustione, facendoli reagire con solventi chimici.
Sono le centrali con gassificazione del carbone ad essere potenzialmente a zero emissioni. In questo particolare tipo d’impianto, detto IGCC (Integrated Gasification Combined Cycle), il combustibile non viene bruciato direttamente, come nelle centrali tradizionali, ma viene fatto prima reagire con ossigeno e vapore per formare il “syngas”, composto gassoso formato da idrogeno e monossido di carbonio (CO). Aggiungendo ulteriore vapore al “syngas”, si converte la maggior parte del CO in CO2, che può essere poi separata facilmente dall’idrogeno. Questo processo emetterebbe perciò soltanto il vapor d’acqua prodotto dalla combustione dell’idrogeno.
Per quanto riguarda il sito di stoccaggio, è necessario che sia una struttura geologica porosa, permeabile e coperta da uno strato di roccia impermeabile. La profondità deve essere almeno di 800 metri affinché via sia una pressione sufficiente a mantenere liquida l’anidride carbonica: in questo modo la CO2 si espande facilmente nei pori del terreno e, nel giro di qualche decennio, si lega chimicamente con le rocce presenti, rimanendo così intrappolata (per la mineralizzazione completa sono necessari alcuni millenni).
L’immagazzinamento geologico di anidride carbonica non è una tecnica nuova, ma in realtà è usata già da qualche decennio nell’industria petrolifera. L’iniezione di CO2 nei giacimenti di petrolio o di gas naturale permette di tenerli sempre in pressione e favorire il recupero degli idrocarburi, aumentando la produttività, specialmente in fase di esaurimento del giacimento.
I luoghi ideali di stoccaggio sono però gli acquiferi salini profondi. Hanno, infatti, le caratteristiche geologiche perfette e possono contenere enormi quantità di CO2: si stima, per esempio, che la capacità del deposito salino di Sleipner in Norvegia sia cento volte superiore al totale delle emissioni annue di CO2 dell’Unione Europea.
Altri siti idonei sono i giacimenti di carbone. Qui l’anidride carbonica può essere iniettata per saturare i vuoti lasciati dagli scavi di estrazione e nel contempo recuperare il metano, che si libera nei cunicoli delle miniere.

La capacità mondiale di immagazzinamento geologico della CO2 è stimata in circa diecimila miliardi di tonnellate. Tale capacità sarebbe teoricamente sufficiente a confinare nel sottosuolo tutta la CO2 emessa nel mondo con il tasso attuale per un periodo di tre o quattro secoli (nel 2005 le emissioni sono state di circa 27 miliardi di tonnellate, secondo quanto riportato dall’International Energy Agency in “Key World Statistics 2007”). Questo significa che si esaurirebbero prima i combustibili fossili che la capacità di stoccare l’anidride carbonica.
Al mondo esistono tre impianti operativi a scala industriale per la cattura e lo stoccaggio della CO2: Sleipner in Norvegia dal 1996, Weyburn in Canada dal 2000 e In Salah in Algeria dal 2004. In ciascuno dei tre siti vengono stoccate mediamente più di 1 milione di tonnellate di CO2 all’anno e in nessuno dei tre si sono mai registrate fughe dell’anidride carbonica immagazzinata. Sembra perciò che lo stoccaggio geologico possa avvenire senza alcun tipo di rischio per l’ambiente e le persone.
Il successo ottenuto a Sleipner, Weyburn e In Salah, ha indotto negli ultimi anni le istituzioni dei Paesi industrializzati e le maggiori compagnie energetiche mondiali a sviluppare numerosi progetti di CCS.
L’Unione Europea, nell’ambito delle strategie che sta mettendo a punto contro i cambiamenti climatici, ha varato recentemente un piano per realizzare 12 impianti pilota per la cattura e lo stoccaggio della CO2. Lo scopo è quello di rendere questa tecnologia pienamente fruibile commercialmente entro il 2020. La Commissione Europea sta studiando poi una nuova direttiva che, se approvata, introdurrà l’obbligo dal 1° gennaio 2010 di progettare le nuove centrali a carbone “carbon capture ready”, ossia già predisposte per l’eventuale impianto di cattura.
I lavori della Commissione sono supportati dalla piattaforma tecnologica e scientifica ZEP (Zero Emission Platform), che dal 2004 riunisce i maggiori produttori europei di energia allo scopo di individuare le tecnologie migliori per ridurre le emissioni da combustibili fossili.
In Italia Enel, uno dei soci fondatori di ZEP, ha avviato dal 2002 specifici programmi di ricerca per dimostrare la validità industriale della CCS e sta sviluppando alcuni impianti sperimentali sul nostro territorio, il primo dei quali sarà operativo già dal 2009 a Brindisi. Enel ha inoltre concluso, all’inizio di quest’anno, un accordo con Eni, per realizzare uno studio di fattibilità per lo sviluppo della CCS nel nostro Paese. Lo studio è il passo preliminare per un Piano nazionale per la cattura, trasporto e stoccaggio della CO2.
Tra i vari progetti in corso nel mondo merita menzione l’americano “FutureGen”, indubbiamente il più ambizioso. Una partnership da 1,75 miliardi di dollari tra diverse aziende private (americane e non) e il Dipartimento per l’energia degli Stati Uniti mira a realizzare il primo impianto al mondo a carbone per la produzione simultanea di elettricità e idrogeno, a zero emissioni nocive e con il sequestro e lo stoccaggio sotto terra della CO2. L’impianto prototipo, di potenza 275 MW, dovrebbe sorgere a Mattoon in Illinois nel 2012.
È chiaro che è l’industria del carbone, il combustibile fossile con le più alte emissioni di CO2 (circa 800-1000 grammi di CO2 per KWh prodotto, contro i 300-450 grammi del gas naturale), a spingere maggiormente sullo sviluppo della CCS. Una commercializzazione di questa tecnologia, e in particolare del processo IGCC, permetterebbe di avere un carbone ad emissioni zero e quindi di aumentare considerevolmente nella produzione energetica mondiale la sua quota d’uso, limitata fino ad oggi dagli elevati impatti ambientali.
Anche l’IPCC (International Panel on Climate Changes), in un rapporto del 2005 (“IPCC Special Report on Carbon Dioxide Capture and Storage”), si è mostrato fiducioso che queste nuove tecnologie saranno determinanti per raggiungere il prefissato dimezzamento delle emissioni di gas serra entro il 2050.
Organizzazioni non governative e associazioni ambientaliste, invece, si oppongono fermamente allo sviluppo della CCS, sollevando parecchi dubbi sulla sua reale efficacia e sugli enormi costi.
Greenpeace, in particolare, con il rapporto del 2008 “Il confinamento della CO2: un’illusione”, è capofila tra quanti esprimono la propria contrarietà, ritenendo la CCS inutile e rischiosa.
Inutile perché investire importanti capitali in tecnologie per i combustibili fossili, destinati ad esaurirsi nel breve-medio periodo, appare una scelta strategicamente sbagliata. Sarebbe meglio concentrarsi sulle fonti rinnovabili e l’efficienza energetica, che sono invece soluzioni di lungo termine. Peraltro la CCS, dice Greenpeace, non potrà essere pienamente fruibile prima del 2030, troppo tardi quindi per un’azione immediata ed efficace contro il riscaldamento globale.
Rischiosa perché aumenterebbe l’uso del carbone, la fonte energetica più inquinante, e perché permangono dubbi sulla reale efficacia del confinamento nel sottosuolo e l’impossibilità di fughe anche consistenti di anidride carbonica.
Gli studiosi del settore, tra cui Enzo Boschi, presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), ritengono però altamente improbabile la fuoriuscita di quantità significative di CO2 immagazzinata a centinaia di metri sottoterra al di sotto di spessi strati di roccia impermeabile, nemmeno in seguito a violenti terremoti. Nell’eventualità le fughe sarebbero di modesta entità (meno dell’1% della CO2 stoccata) e per nulla pericolose per la salute umana.
Al di là delle posizioni di parte, rimane il fatto che la CCS è oggi una tecnologia ancora sperimentale. Se lo stoccaggio risulta, a detta degli esperti, una tecnica ormai assodata e relativamente sicura grazie alla lunga esperienza in campo petrolifero, la cattura rappresenta invece una vera sfida tecnologica, per gli elevati costi, non solo economici, ma anche energetici, visto che il processo è estremamente energivoro.
I processi per la cattura della CO2 aumentano i consumi di energia dal 10% al 40% in più rispetto ad una centrale tradizionale, e abbassano quindi in modo significativo l’efficienza degli impianti, aumentando i consumi di combustibili (ciò implica un aumento delle emissioni).
Inoltre la tecnologia CCS ha dei costi ancora troppo elevati per un’attuazione a larga scala: dai 50 ai 100 € per tonnellata di CO2 sequestrata, di cui circa l’80% è dovuto alla sola cattura. Una sua applicazione generalizzata oggi farebbe letteralmente schizzare verso l’alto i prezzi dell’energia elettrica.
La principale criticità riguardo la CCS è però la mancanza di una legislazione specifica nel settore. Sarebbero, infatti, necessarie norme approvate internazionalmente per gestire in modo adeguato problemi economici e rischi ambientali e per dotare le aziende energetiche e gli enti di ricerca dei necessari strumenti finanziari. Per ora tali norme sono solo in fase di studio.
Il pericolo è che, senza riferimenti certi e in un clima di generale confusione e polemica, non vengano sviluppate fino in fondo le potenzialità di una tecnologia comunque interessante o peggio, si possano sottovalutare i rischi per la sicurezza.

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