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Celle solari “superidrofobiche” come foglie di loto

Il risultato di questa ricerca riguarda il trattamento a cui viene sottoposta la superficie delle celle fotovoltaiche, che farebbe aumentare l’assorbimento dei raggi solari sia intrappolando la luce nella sua struttura tridimensionale, sia grazie alla pulizia automatica della superficie stessa, che sfrutta l’azione della pioggia per allontanare polvere e sporcizia che altrimenti si accumulerebbero sulle celle.
Proprio grazie alla caratteristica di raccogliere e far allontanare l’acqua che cade sulla sua superficie, la cella fotovoltaica acquisisce il nome di cella “superidrofobica”.
Lavorando con le nanotecnologie e trattando chimicamente lo strato finale di silicio, i ricercatori hanno imitato la struttura e le caratteristiche intrinseche delle foglie del fior di loto: la ruvidità della superficie delle foglie di loto infatti, presente in due diversi ordini di grandezza e livelli sovrapposti, crea una rete superficiale con angoli di contatto differenti, al fine di allontanare il più velocemente possibile l’acqua dalla loro superficie dopo averla raccolta in punti precisi. L’acqua, nel suo scorrere via dalla foglia, trascina con sé la sporcizia che vi si era accumulata: questo effetto è stato ricreato per il silicio, che di conseguenza si comporta allo stesso modo tenendo pulito l’ultimo strato della cella.
La rugosità della superficie viene generata attraverso micro e nano strutture, riducendo al minimo il contatto stesso tra la superficie della cella e la polvere che vi si accumula. Così facendo il primo risultato raggiunto è che quando una goccia di pioggia tocca la superficie, essa si posa in realtà su questa doppia rete rugosa e solo il 3% giunge realmente a contatto con essa.
A livello tecnico, la superficie superidrofoba viene preparata utilizzando una soluzione di idrossido di potassio (KOH) attraverso la quale si incide lo strato superficiale di silicio creando una struttura piramidale. Successivamente, attraverso un processo a scala nanometrica, vengono applicate a questa struttura alcune particelle d’oro. Utilizzando un processo in cui il metallo, in questo caso l’oro, funge da catalizzatore, e con l’aiuto di una soluzione di fluoruro di idrogeno (HF) e perossido di idrogeno (H2O2), viene infine raggiunto il risultato finale della superficie tridimensionale. Infine l’oro viene rimosso con una soluzione di ioduro di potassio (KI) e la superficie viene ricoperta con il perfluorooctyl tricholosilane (PFOS).
La combinazione di una superficie autopulente e ad alto assorbimento luminoso amplifica l’efficienza della cella di silicio colpita dalla radiazione solare.
Naturalmente “maggiore è la luce solare che raggiunge le celle e minore è la riflessione, più alta sarà l’efficienza”, come spiega il Professor C.P. Wong, docente presso la Tech’s School of Materials Science and Engineering della Georgia. E ancora prosegue affermando che “le simulazioni condotte indicano la possibilità di aumentare l’efficienza finale delle celle fino al 2% solo grazie a questa particolare struttura della superficie”.
Mentre gran parte della radiazione luminosa che raggiunge una cella di silicio convenzionale viene riflessa, in una cella con una struttura di questo tipo la riflessione viene ridotta a meno del 5%, come afferma il Professor Dennis Hess, docente presso la Georgia Tech School of Chemical and Biomolecular Engineering.
Ciò spiana la strada allo sfruttamento dell’energia solare anche in zone della Terra dove le condizioni ambientali sfavorevoli e la lontananza di fonti convenzionali di energia rendono difficile la permanenza dell’uomo, come per esempio i deserti, dove proprio la pulizia delle celle fotovoltaiche sarebbe un problema, ma dove la rugiada notturna può in questo caso fornire abbastanza umidità da tenere pulito il sistema.
Come succede spesso per questo tipo di tecnologie d’avanguardia, l’ostacolo principale è insito nella “riproduzione” a basso costo dell’elemento, nella sua durata e nella sua redditività. La ridotta dimensione delle celle superidrofobiche infatti, le rende molto fragili soprattutto durante la fase di incisione meccanica, che è anche la fase più costosa del processo.
Ciò nonostante la tecnologia fin qui affinata potrebbe essere applicata anche in campi molto diversi, primo fra tutti quello medico, in cui la tecnica dell’incisione utilizzata per le celle superidrofobiche sarebbe con successo applicabile ai rivestimenti antibatterici delle attrezzature e dei dispositivi elettromedicali.

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