Batteri, mais, rape, patate, pomodori e tanti altri: un pool “bio” potenzialmente vastissimo per la creazione nuovi materiali plastici biodegradabili che potrebbero essere la salvezza per la nostra civiltà, innegabilmente inserita, senza troppi giri di parole, in una vera e propria “età della plastica”. Ma è tutto ecocompatibile quello che luccica di verde?
I numeri che girano intorno al mercato della plastica sono sorprendenti; nel 2008 in Europa il consumo di materie plastiche ha raggiunto i *48.5 milioni di tonnellate,* con Germania, Italia, Francia, Spagna e Inghilterra che hanno inciso da sole sul 66% dell’intero consumo europeo. Considerando che i rifiuti derivanti da plastica sono circa il 10-15% dei rifiuti urbani prodotti e che, nel caso specifico italiano la produzione pro capite di rifiuti urbani si aggira intorno ai 546 kg/abitante (dati ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, 2007), ognuno di noi produce mediamente ogni anno circa *65 kg di plastica.*
Dei 48.5 milioni di tonnellate di plastica consumata annualmente in Europa, il 38% è utilizzato nell’industria dell’imballaggio, e su questi 18 milioni di tonnellate si è recentemente arrivati ad una svolta. La normativa *UE EN 13432,* che meglio delinea la precedente direttiva europea 94/62/CE sugli imballaggi, definisce le caratteristiche che un materiale deve possedere per potersi definire biodegradabile o compostabile: almeno il 90% della parte organica del materiale in esame deve essere convertito in CO2 entro 6 mesi (materiale biodegradabile) e non più del 10% della massa originaria del materiale deve rimanere dopo 3 mesi di compostaggio e successivo setacciamento a 2 mm (materiale compostabile). In parole povere la normativa vieta, tra le altre cose, la produzione e la commercializzazione dei famigerati sacchetti di plastica non biodegradabili.
In Italia il comma 1130 della Finanziaria 2007 prevedeva il “definitivo divieto, a decorrere dal 1° gennaio 2010, della commercializzazione di sacchi non biodegradabili per l’asporto di merci”, rispettando la scadenza suggerita dalla direttiva comunitaria EN 13432. I decreti attuativi per definirne i modi e le sanzioni di chi non rispetterà il definitivo divieto però non sono mai stati emanati. Quindi dal 1° gennaio di quest’anno la scelta di abbandonare le care vecchie sportine di polietilene è puramente facoltativa.
A prescindere dall’efficacia (o meno) della legislazione italiana nell’applicazione di importanti normative in campo di tutela ambientale, l’interesse verso le plastiche biodegradabili è una tematica molto sentita a livello globale e l’attuale panoramica di prodotti disponibili è decisamente vasta.
Rispetto alle plastiche tradizionali le plastiche biodegradabili quindi non devono solo avere proprietà meccaniche simili e quindi essere adatte all’uso e avere costi idonei per un bene di consumo primario, ma devono soprattutto essere facilmente recuperabili e riciclabili, ed avere una compatibilità ambientale maggiore. Quando si parla di plastiche biodegradabili la prima cosa (forse banale) da tenere in mente è che “bioplastica” non significa “plastica biodegradabile”: esistono polimeri derivanti da materie prime rinnovabili molto persistenti e non biodegradabili, come il bio-poliuretano o il bio-polietilene, così come esistono polimeri ottenibili da materie prime fossili ma altamente biodegradabili, come il policaprolattone.
Detto questo i materiali polimerici biodegradabili ottenibili da fonti rinnovabili sono moltissimi: polisaccaridi (come amido, cellulosa, lignina e chitina), proteine (come il glutine e la zeina), lipidi (come gli oli vegetali e i grassi animali), gomme, poliesteri (come i poliidrossialcanoati PHA e l’acido polilattico PLA), solo per citarne alcuni.
La sintesi di plastiche biodegradabili a partire dall’amido porta un marchio tutto italiano; la Novamont, fondata nel 1990 dal gruppo Montedison, è stata la prima azienda a mettere sul mercato il *Mater-Bi®,* nome commerciale che racchiude quattro materiali plastici biodegradabili diversi a base di amido con vari additivi che ne determinano le diverse proprietà meccaniche e conseguenti applicazioni. Il tipo V è composto all’85% da amido, degrada molto rapidamente ed è usato in sostituzione al polistirene; il tipo Z è una miscela di amido e policaprolattone, è degradabile in 20-45 giorni ed è utilizzato per pellicole e sportine; il tipo Y è una miscela di amido e cellulosa modificata ed è persistente per circa 4 mesi in impianti di compostaggio; infine il tipo A, il più persistente dei quattro può essere usato per oggetti più rigidi come stoviglie e piatti.
L’altra classe di polimeri biodegradabili di origine naturale che insieme al Mater-Bi® calca maggiormente le scene del panorama delle plastiche bio è la classe dei poliesteri, in particolare i poliidrossialcanoati PHAs e l’acido polilattico PLA.
In questo caso l’approccio è simile a quello per produrre bioetanolo, cioè la fermentazione batterica di residui vegetali. Il *PLA,* polimero dell’acido lattico, si ottiene per fermentazione di zuccheri a sei atomi di carbonio ad opera dei batteri del genere _Lactobacillus._ Fino agli anni ‘80 i costi proibitivi di produzione avevano ristretto il campo di applicazione del PLA al solo settore medico; successivamente i progressi tecnologici e l’abbassamento del costo della produzione di acido lattico per via biologica hanno ampliato il mercato del PLA anche a una scala di produzione commerciale per applicazioni non mediche. E per fortuna, perché il grande vantaggio del PLA è che, oltre ad essere biocompatibile e non tossico, è anche facilmente compostabile, degradando completamente in ambiente prima grazie ad una reazione di idrolisi e poi per attacco microbico. Questo è un aspetto estremamente importante perché significa che anche in ambienti ad elevata umidità, il PLA non viene attaccato da batteri e funghi fino a ché non si è innescata la prima reazione di idrolisi, vantaggio innegabile quando il PLA si trova a diretto contatto per tempi lunghi con alimenti.
Due sono le strade industriali sviluppate fino ad ora per produrre PLA ad alto peso molecolare, una proposta dalla compagnia americana NatureWorks LLC e una dalla compagnia giapponese Mitsui Chemicals. La NatureWorks LLC, della Cargyll Dow, utilizza un processo basato sulla fermentazione del glucosio contenuto dal mais per ottenere acido lattico, poi condensato in una molecola ciclica chiamata lattide, ed infine polimerizzato a PLA in una reazione senza solvente. Mediante questo procedimento, la NatureWorks produce più di 136 milioni di chilogrammi di PLA, che vende in tutto il mondo con il nome commerciale di IngeoTM; moltissimi sono i partner eccellenti, come la Coop, che utilizzano le svariate merceologie a marchio NatureWorks®. Contenitori per l’insalata e il pane, contenitori per la gastronomia, sacchetti per la biancheria, tazze, stoviglie monouso, bottiglie, salviette monouso, pannolini per bambini, vestiti, materassi, attrezzi per il giardinaggio, sono solo alcuni dei prodotti sul mercato.
La Mitsui Chemicals invece ha sviluppato un processo di conversione dell’acido lattico direttamente in PLA mediante polimerimerizzazione in solvente e rimozione dell’acqua risultante con una distillazione azeotropica. Recentemente infine è stato messo a punto un nuovo processo altamente innovativo ed eco-compatibile nel quale alcuni ceppi di _Escherichia coli_ sono stati modificati geneticamente al fine di poter condurre non solo la fermentazione del glucosio ad acido lattico per via batterica, ma anche il processo di polimerizzazione stesso, creando una vera e propria “fabbrica microbica”, bio al 100%.
E’ importante sottolineare però che nonostante questi nuovi polimeri biodegradabili siano estremamente promettenti e offrano un’alternativa sostenibile molto valida alle tradizionali plastiche derivanti dal petrolio, in genere quando si parla di un qualcosa “bio”, “eco-compatibile” o “amico dell’ambiente” si tendono a vedere solo gli aspetti positivi rispetto alle tecnologie pre-esistenti e a presentare queste soluzioni sotto una luce solo ed esclusivamente favorevole.
Infine bisogna precisare che molto spesso l’ambientalismo prende il sopravvento sul buon senso; ora ad esempio stiamo assistendo ad una storica crociata contro le sportine della spesa di polietilene, finalmente in procinto di essere messe al bando, ma questa crociata rischia di diventare solamente una foglia di fico; anche se la sportina di plastica diventasse bio infatti, resterebbe non bio e non riciclabile tutto ciò che nella sportina di plastica viene normalmente inserito quando si va a fare la spesa, vale a dire bottiglie, flaconi, pellicole e tutti gli annessi che i prodotti di uso comune contengono.
L’eliminazione dei soli sacchetti di plastica non biodegradabili è come tappare con un chewing-gum una falla in una diga, vale a dire una misura sproporzionatamente inefficace per un problema immensamente grande a cui si può solamente ed efficacemente rispondere con un’azione concertata di strumenti legislativi, innovazioni tecnologiche, ingegneria genetica e modifica collettiva degli stili di vita.