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Cancun, tra colpi di scena e piccoli passi avanti

Mentre i negoziati climatici entrano nel vivo con l'arrivo dei ministri e l'apertura dei paesi BASIC, Wikileaks svela che alla base del fallimento di Copenaghen ci fu una segreta offensiva diplomatica lanciata dalla Cia attraverso il Dipartimento di Stato

Il “vertice messicano della COP 16″:https://cc2010.mx/es/ sui cambiamenti climatici sembra non essere nato sotto una buona stella. Dopo le pessimistiche previsioni messe in valigia dai vari delegati alla vigilia del summit e dopo una serie di flebili e monocordi esortazioni lanciate a più riprese dai paesi partecipanti arriva una notizia che rischia di peggiorare notevolmente gli umori: il fallimento del vertice di Copenhagen non sarebbe il frutto di un’incomprensione al tavolo dei negoziati ma di veri propri dietro le quinte orchestrati dagli americani. A riportare lo scoop è il britannico Guardian che ha pubblicato in questi giorni alcuni documenti forniti da Wikileaks. Il sito ha svelato diversi cablogrammi della diplomazia statunitense che mostrano come, nelle fasi precedenti alla COP 15 danese, l’amministrazione Obama abbia sguinzagliato i propri segugi per spiare i diplomatici degli Stati chiave e i funzionari Onu. Le ambasciate Usa smosse dalla CIA hanno dato vita ad un ‘mercato’ aprendo l’Accordo di Copenhagen e promettendo aiuti finanziari ai paesi più poveri in cambio di sostegno. Stando ai documenti, a decretare quello che agli occhi di tutti è risultato una sconfitta è stato però il nulla di fatto registrato a Singapore tra Cina e Stati Uniti; il mancato accordo sulla riduzione delle emissioni di CO2 tra i due paesi in quell’occasione avrebbe convinto Obama a cedere alle lobby industriali piuttosto che infondere l’ambizione necessaria alla lotta contro il riscaldamento globale. Arrivare ad un accordo minore fu tutto quello che si ebbe e tutto quello peraltro che la Casa Bianca avrebbe avuto, fin dall’inizio, intenzione di portare a casa. Rivelazioni di Wikileaks a parte, quella che si è aperta ieri è la settimana decisiva per i negoziatori che cercheranno di trovare un _“pacchetto bilanciato”_ di accordi, empasse ‘Protocollo di Kyoto’ permettendo. Accantonata infatti l’idea di poter raggiungere in questa riunione un nuovo patto internazionale i delegati dovranno lavorare ai grandi nodi negoziali: finanziamento, adattamento e mitigazione. Il futuro del famoso trattato climatico, tuttavia, preoccupa al punto da essere direttamente ricollegato al possibile successo o disfatta di Cancun. Schierati da un lato le economie emergenti vorrebbero estendere la scadenza dell’accordo di Kyoto prima di essere chiamate in causa in nuovo patto vincolante. Al contrario Giappone, Canada e Russia hanno fatto saper di non essere disponibili a firmare per una proroga preferendo invece un trattato che impegni anche i paesi in via di sviluppo.

Per far funzionare gli ingranaggi di questo complicato orologio il ministro degli Esteri messicano e presidente della conferenza Patricia Espinosa ha assegnato le questioni chiave a coppie composte ognuna da un paese ricco e uno povero. *Svezia* e *Grenada* lavoreranno per la _shared vision_ con cui affrontare gli obiettivi globali a lungo termine per il rallentamento del global warming; *Spagna* e *Algeria* affronteranno la questione dell’adattamento, cercando di superare le differenze d’azione ancora esistenti; i ministri di *Australia* e *Bangladesh* si occuperanno delle questioni annesse alla finanza climatica, della condivisione della tecnologia verde e al capacity building; *Nuova Zelanda* e *Indonesia* faranno fronte comune sui problemi di mitigazione dei cambiamenti climatici e sulle altre questioni relative alla riduzione dei gas serra mentre a *Inghilterra* e *Brasile* toccherà la delicata questione del periodo di vigenza del protocollo di Kyoto. La proposta da analizzare contiene due approcci principali: lasciare il Protocollo invariato, oppure rafforzarlo sostenendo le opzioni che eliminano numerose scorciatoie contabili che a tutt’oggi consentono ai paesi di modificare i dati riguardanti le loro emissioni effettive, di effettuare un doppio conteggio degli effetti dei Clean Development Mechanism o ancora di sovrastimare l’uso delle foreste come depositi di carbonio.
Espinosa rimane fiduciosa: “Esistono le condizioni per arrivare a un vasto e bilanciato pacchetto di decisioni. Io spero nel completamento di questi accordi prima dell’apertura della sessione di alto livello martedì pomeriggio. Va comunque detto che, il risultato positivo che le nostre società attendono non è ancora completo”.

Non mancano piccoli avanzamenti. L’ambasciatore brasiliano Sergio Serra e il capo negoziatore cinese Xie Zhenhua hanno portato una ventata positiva al clima messicano annunciando un’apertura, storica, nei confronti di obblighi emissivi volontari per i Paesi del BASIC (Brasile, Sudafrica, India, Cina). “Siamo disponibili – dichiarato il delegato cinese – ad un taglio volontario delle emissioni, che può essere fatto in ambito della Convenzione sul clima e sotto la forma di uno strumento giuridicamente vincolante”. Un sì storico quello pronunciato dal G4 che si è dichiarato pronto anche all’introduzione di un meccanismo di misurazione e verifica a patto però che i Pesi sviluppati accettino un _“Kyoto Bis”_ e mettano a punto di un nuovo meccanismo di trasferimento tecnologico che faciliti la transizione low carbon richiesta alle economie emergenti. “Siamo fortemente determinati – ha aggiunto il ministro dell’Ambiente indiano Jairam Ramesh – a raggiungere un successo qui a Cancun. Ma ci sono tre punti non negoziabili. E nel _sine qua non_ rientra anche l’impegno ad accelerare la fase dei finanziamenti climatici e per la precisione quei 7,2 miliardi del “fast start” stabiliti nel *Copenhagen Accord* e ancora mai elargiti. In questo contesto il ministro all’Ambiente Prestigiacomo, in partenza per la Conferenza ONU, ha fatto sapere che ”l’Italia ha provveduto ad onorare l’impegno di 200 milioni di euro”.
Si attende ora la mossa degli Stati Uniti, unico paese industrializzato a non aver ratificato il Protocollo di Kyoto del 1997, impegnatosi a ridurre le emissioni di circa il 17 per cento entro il 2020 sulla base di livelli del 2005. Per Ramesh tutto ciò equivale a una riduzione pari a zero considerando i valori del 1990, la linea base di Kyoto.