(Rinnovabili.it) – Nel futuro del fotovoltaico c’è PETE. Non si tratta di un _chi_ bensì di un _cosa,_ perché PETE non è altro che l’acronimo di un nuovo processo messo a punto nei laboratori di Stamford, il “photon enhanced thermionic emission”:https://www.nature.com/nmat/journal/vaop/ncurrent/full/nmat2814.html. Come lo stesso nome spiega, alla base del lavoro condotto ch’è il concetto di emissione termoionica, ossia il processo per cui un metallo quando portato a una temperatura sufficientemente alta, comincia ad emettere elettroni. I ricercatori hanno tentato, e con successo, di accoppiare tale meccanismo a quello fotovoltaico. In altre parole hanno cercato di sfruttare contemporaneamente la luce e il calore della radiazione solare per generare elettricità. “Si tratta di una svolta concettuale, di un nuovo processo di conversione energetica”, spiega Nick Melosh, professore di scienza dei materiali alla Stanford e a capo del gruppo di ricerca. “Non parliamo di un nuovo materiale o di una piccola modifica nel processo, si tratta davvero di qualcosa di fondamentalmente differente dalle tradizionali modalità con cui è possibile ricavare energia”.
La maggior parte delle celle fotovoltaiche che impiegano il silicio come materiale semiconduttore sono capaci di utilizzare solo una porzione dello spettro luminoso. La luce non sfruttata viene dissipata sotto forma di calore e, unita alle inefficienze del dispositivo stesso, determina una perdita di oltre il 50 per cento dell’energia solare che inizialmente raggiunge la cella.
In tal senso, il primo ostacolo incontrato dagli scienziati è stato quello di accoppiare la conversione termica, che avviene solo a temperature elevate, a quella fotovoltaica, che richiede invece il “termometro sotto controllo” per non perdere di efficienza.
Il team ha risolto rivestendo una porzione di semiconduttore con uno strato di cesio. Mentre la maggior parte celle solari al silicio sono rese inerti quando si toccano i 100 °C, il dispositivo PETE non raggiunge l’efficienza di picco finché non si superano i 200 °C. Proprio per questa sua capacità di funzionare in modo ottimale a temperature ben al di sopra di quelle che interessano i moduli solari sui tetti, gli scienziati hanno sperimentato il dispositivo in combinazione con un concentratore. Melosh stima che il processo possa condurre fino al 50 per cento di efficienza in più nel solare a concentrazione, e, se combinato con un ciclo di conversione termica, potrebbe raggiungere il 55 o addirittura 60 per cento.