Rinnovabili

Alghe, promessa energetica o “bolla verde”?

Inizio degli anni ‘50, Massacchusset Insitute of Technolgy, Cambridge, US: il primo fotobioreattore ad alghe nasce qui, sul tetto di una delle più prestigiose università del mondo, nell’ambito del primo progetto di coltivazione algale su larga scala. Risale a questi anni la nascita della nuova frontiera dei biocombustibili di terza generazione basati sull’utilizzo di biomasse acquatiche come alternativa al biodiesel e al bioetanolo rispettivamente da colture agricole oleaginose (colza e soia) o ricche in amido/zuccheri (canna da zucchero e mais).
Perché l’esigenza di sostituire i cosiddetti biocarburanti di prima generazione, sviluppati come alternativa sostenibile all’insostenibile consumo di fonti fossili, con nuove generazioni di bio-combustibili? E perché tanto entusiasmo per le alghe?
Il biodiesel e il bioetanolo da colture terrestri attualmente sono in grado di soddisfare solo una ridotta frazione della domanda energetica globale, vista l’evidente impossibilità di trasformare tutte le colture globali in monocolture di piante come la soia o il mais, e comunque non sono esenti da problematiche sia ambientali che socio-economiche; un importante aspetto è la competizione con l’uso alimentare della risorsa/l’utilizzo del suolo per coltivare altre piante a scopo alimentare. Un ulteriore aspetto economico è la disponibilità delle riserve biologiche che non sempre, soprattutto se sfruttate in grandi quantità, può essere garantita poiché ad esempio possono insorgere gravi eventi ambientali, come siccità, alluvioni o parassiti, non programmabili.
Una maggiore consapevolezza di tali problematiche ha portato quindi allo sviluppo di biocombustibili di seconda generazione da risorse non alimentari, mediante lo sfruttamento delle frazioni ligno-cellulosiche non edibili di piante terrestri, e di terza generazione, rappresentati nel nostro caso specifico proprio da bio-fuels da micro e macroalghe.
I benifici potenziali relativi al loro impiego sono innegabili ed includono aspetti fisiologici, come un’efficienza fotosintetica, e quindi capacità di convertire la luce solare in biomassa, circa quadrupla rispetto a quella delle biomasse terrestri – 5% contro 1.5% – e una crescita estremamente rapida (le microalghe possono raddoppiare la loro biomassa in poche ore); vantaggi socio-economici, come la non competizione con l’uso alimentare della risorsa; ed aspetti ambientali, come l’utilizzo di aree marginali non coltivabili, ad esempio le zone desertiche, dove costruire grandi bacini aperti (la crescita delle alghe è poco influenzata dalle condizioni climatiche, basti pensare che le regioni climatiche più adatte sono tutte quelle con una temperatura media annuale maggiore di 15°C), e la possibilità di integrare la produzione di biomassa algale e la sintesi di bio-combustibili con altre attività generanti profitto, ad esempio il bio-trattamento delle acque reflue.
Inoltre *le specie algali esistenti sono circa 50.000,* di cui 30.000 descritte e studiate, e a questa straordinaria abbondanza si aggiunge la possibilità di modificare facilmente il genoma algale, per aumentare ad esempio il contenuto lipidico di una certa specie nell’ottica di incrementare le rese di biocombustibili da questa ottenibili. Un pool così ampio di specie disponibili offre la possibilità di avere organismi molto differenti tra loro dal punto di vista fisiologico e metabolico, in grado di poter fornire un’ampia gamma di biocombustibili, dal biodiesel al bioidrogeno, dal biogas ad un olio ricco in idrocarburi.
Infine la caratteristica più rilevante che maggiormente ha alimentato le speranze di poter risolvere le problematiche energetiche globali utilizzando le biomasse acquatiche, è l’elevato contenuto lipidico ad alto valore energetico della maggior parte delle specie algali, *pari in media al 20-50% del peso secco* della biomassa da cui, date le notevoli capacità di crescita, derivano produttività annuali di olio sorprendentemente alte se confrontate con le tradizionali piante terrestri da cui si ottiene il biodiesel: la resa di olio lipidico convertibile in biodiesel, attualmente ottenibile da piante terrestri, va da un minimo annuale di 400 litri/ettaro per la soia ad un massimo di 6.000 litri/ettaro per la palma, mentre raggiunge i *60.000 litri/ettaro nel caso delle microalghe*.
Sulla spinta di queste promettenti premesse a cavallo degli anni ‘80-‘90 si è assistita ad una vera e propria corsa all’oro “verde”; dal 1978 al 1996 ad esempio il Department of Energy’s Office of Fuels Development degli Stati Uniti ha finanziato un piano di ricerca ventennale per lo sviluppo di nuovi combustibili da autotrazione dalle alghe; l’obiettivo principale di tale programma, noto come _Aquatic Species Program_ (o ASP), era la produzione di bio-diesel da alghe con elevato contenuto lipidico coltivate in grandi vasche di cultura, utilizzando l’anidride carbonica prodotta dalla combustione di centrali a carbone per incrementare il tasso di crescita algale.
Moltissimi bacini aperti (open ponds) e fotobioreattori sono stati così costruiti come progetti pilota nel New Mexico, in California e alle Hawaii, seguiti a ruota dal finanziamento di progetti analoghi in altre zone geografiche come Cina, Israele, Taiwan e Giappone, solo per citarne alcune, dove coltivare intensivamente micro e macroalghe nell’ottica di utilizzarle sia come fonte di composti chimici ad alto valore aggiunto per l’industria nutraceutica, che come fonte alternativa e rinnovabile di biocarburanti.

Nonostante il livello di conoscenza scientifica raggiunto e i conclamati vantaggi, l’ipotesi “alghe” come soluzione energetica è quanto mai controversa e il dibattitto sull’effettiva possibilità di sfruttare questa risorsa come alternativa ai combustibili fossili o ai bio-combustibili da piante terrestri resta più che mai aperto. Parlando oggi di biocombustibili da alghe si sente sempre più spesso nominare il sarcastico appellativo di “bolla verde”, e questo risiede nel fatto che la produzione di biodiesel da alghe non è una problematica banale ed evidenzia tutti i suoi punti deboli quando si passa dalla piccola scala di laboratorio alla grande scala degli open ponds o dei fotobioreattori.
Le maggiori limitazioni sono di natura economica. I costi energetici ed economici inerenti alla coltivazione algale, dalla gestione e manutenzione delle vasche di crescita alla raccolta della biomassa, dall’essicazione e all’estrazione degli oli ricchi in lipidi e alla sintesi del bio-diesel, rappresentano un vero e proprio collo di bottiglia che attualmente ostacola il decollo industriale per questo tipo di tecnologia.
Il fattore che però influenza maggiormente i costi è di natura biologica piuttosto che ingegneristica: la specie ideale dovrebbe avere un’elevata produttività primaria, un alto contenuto lipidico, una buona resistenza in coltivazioni outdoor e un’ottima tolleranze a fluttuazioni di temperatura e salinità.
In realtà, sebbene un’ampissima varietà di specie siano state valutate in questi anni, nessuna di queste si è rivelata idonea allo scopo; la limitazione più significativa risiede nel fatto che le condizioni ambientali che favoriscono un’elevata produttività primaria e una crescita veloce di biomassa, ossia mezzi di coltura ricchi di nutrienti, sono in realtà sfavorevoli all’accumulo di lipidi, che in genere avviene quando l’alga è in carenza di nutrienti essenziali.
Inoltre va considerato che i fattori ambientali che influenzano la fotosintesi sono moltissimi, e inevitabilmente riducono l’efficienza fotosintetica a livelli ampiamente inferiori di quelli massimi teorici (10%). Ad esempio in condizioni di piena luce, l’efficienza fotosintetica, e quindi la produttività primaria, è ridotta a circa 1/3 del massimo teorico. Va tuttavia sottolineato che, anche nella più ottimistica delle ipotesi di avere organismi altamente produttivi, con una efficienza fotosintetica prossima ai massimi teorici in grado di convertire completamente la luce solare in biomassa, le analisi socio-economiche dimostrano comunque che il costo del biodiesel ottenibile da alghe sarebbe doppio di quello del diesel da petrolio.
Attualmente il mercato relativo all’utilizzo delle coltivazioni algali è limitato a sostanze ad elevato valore aggiunto come gli integratori alimentari o sostanze farmaceutiche; Haematococcus e Dunaliella ad esempio sono in grado di sintetizzare rispettivamente i carotenoidi astaxantina e beta-carotene, mentre Spirulina e Chlorella sono da anni coltivate come integratori alimentari. Il prezzo di tali prodotti si aggira sull’ordine di *10.000-100.000 dollari alla tonnellata,* ma nell’ottica di sfruttare le alghe come fonte di combustibili o di altre commodities, il cui prezzo è generalmente nettamente inferiore ai 1000 dollari alla tonnellata, si devono abbattere i costi di produzione e delle tecnologie attualmente utilizzate per la coltivazione e il trattamento delle alghe di almeno un fattore 10. Inoltre, considerate le produttività necessarie, nell’ipotesi di accoppiare la produzione di bio-combustibili da alghe con la sintesi di sottoprodotti ad alto valore aggiunto come vitamine, pigmenti o altri composti chimici specifici, che verrebbero di conseguenza anch’essi prodotti in notevoli quantità, si potrebbe saturare il mercato in pochissimo tempo, e il profitto derivante dalla vendita dei co-prodotti inevitabilmente calerebbe.
Il problema quindi non è tanto ottenere i bio-combustibili dalle alghe, quanto piuttosto far crescere le alghe a costi contenuti; attualmente la strategia più plausibile sembra essere la genetica, unico strumento in grado di abbassare i costi aumentando l’efficienza di conversione solare e allo stesso tempo aumentando il contenuto di olio da cui ottenere il bio-diesel.
La sfida si presenta difficile, ma indubbiamente il gioco vale la candela, in quanto, come disse *Giacomo Ciamician*, illustre scienziato italiano e capostipite dell’attuale Chimica Sostenibile: _“… If our black and nervous civilization, based on coal, shall be followed by a quieter civilization based on the utilization of solar energy, that will not be harmful to the progress and to human happiness”_ (“The Photochemistry of the Future” – Science, 1912, 36, 385).

Exit mobile version