I risvolti ambientali del reimpiego, riciclo e recupero del veicolo fuori uso sono tanti, ma per puntare in alto l’intero settore deve essere messo nelle giuste condizioni per operare
(Rinnovabili.it) – Ritirare il veicolo fuori uso, caricarlo e portarlo in azienda, avviare le pratiche amministrative, bonificare e conferire i materiali pericolosi (a volte dovendo pure pagare per smaltirli), scomporre tutto il veicolo e recuperarlo per poter conseguire gli obiettivi imposti a livello internazionale sugli End of Life Vehicles. La demolizione di un’auto giunta a fine vita è un processo che inizia nel momento in cui il suo ultimo detentore decide di disfarsene e che, nonostante si tratti di un’operazione delicata e impegnativa, se fatta con criterio ha i suoi risvolti non solo ambientali, ma anche economici. Una volta che il veicolo da demolire arriva agli impianti di trattamento autorizzati, infatti, diventa un rifiuto che va trattato in un certo modo e secondo precisi criteri imposti proprio dalla legge. Qui, viene sottoposto a una sorta di scomposizione differenziata, ci spiega il Presidente della Confederazione degli Autodemolitori Riuniti (CAR), Alfonso Gifuni, per recuperarne tutte le sue parti.
“Finito il processo amministrativo, che comporta la radiazione del veicolo con il conferimento di tutti i documenti da parte dell’ultimo detentore e la presentazione della pratica di radiazione al PRA, inizia il processo di scomposizione del veicolo per recuperare le tre “R” indicate dalla legge: il Reimpiego della ricambistica usata, operazione di grande utile economico e piccolo dispendio energetico, il Riciclo dei materiali, ovvero le materie prime seconde come metallo, materiali ferrosi, plastiche, o pneumatici, e il Recupero energetico della parte rimanente non più separabile che viene mandata alla termovalorizzazione”.
Il veicolo fuori uso in quanto rifiuto è sempre stato considerato un prodotto prezioso da cui ricavare materie prime secondarie di valore, ma oggi ancor di più. Come ci racconta Gifuni, obiettivi sempre più ambiziosi hanno chiamato in causa anche il recupero di quei materiali meno pregiati, che prima invece andavano dispersi.
“Negli ultimi anni il legislatore è stato più attento nell’imporre obiettivi di recupero anche per quei materiali meno interessanti dal punto di vista economico e che per questo finivano in frantumazione nel fluff, imponendo un target che ad oggi è dell’85% e che dal 1 gennaio 2015 diventerà del 95%. Il demolitore, infatti, oltre a essere obbligato a recuperare anche gli pneumatici, le plastiche dei paraurti o il vetro dei parabrezza, non potrà più compattare il veicolo se prima non avrà scomposto e recuperato anche gli interni”.
È chiaro che, ci fa riflettere Gifuni, nonostante i risvolti ambientali della questione, se il valore di questi materiali recuperati diventa molto basso è difficile che la filiera riesca ad autosostenersi.
“Se il mercato del rottame non è sufficientemente adeguato, può essere difficile gestirlo, ma attualmente per fortuna non è così”.
Ma a quanto ammonta il parco auto demolito in Italia e qual è il giro d’affari che smuove? In Italia sono stimate circa 1.500 aziende nel sistema di demolizione e c’è un impegnato di massa lavorativa di alcune decine di migliaia di persone, ma fare delle stime non è semplice, soprattutto in questo momento storico in cui i veicoli da demolire sono molto pochi a causa della crisi sulle vendite del nuovo. I conti poi vanno aggiustati anche considerando una questione piuttosto delicata: i flussi dei veicoli fuori uso verso l’estero.
“C’è una deviazione del percorso dei veicoli – spiega Gifuni – che noi riteniamo sia pericolosissima e addirittura border line ovvero quella dei veicoli obsoleti che finiscono all’estero. Prima non c’era quest’altissima domanda, oggi invece il concessionario che ne diventa il detentore trova molto più conveniente farsi intestare il veicolo e magari venderlo all’estero”.
Il risvolto per Gifuni potrebbe arrivare con una traumatica, ma necessaria evoluzione del settore.
“Dalle piccole aziende artigianali ad aziende tecnologicamente molto avanzate, con delle necessità ben precise sia dal punto di vista infrastrutturale che da quello normativo, ma anche con problemi da affrontare. Oltre alla chiarezza della norma e alla mancata sincronia degli organi di controllo, ci sono anche i non facili rapporti con gli altri partners della filiera, che hanno scatenato la creazione di reti della demolizione i cui criteri per farne parte, a nostro avviso, non sono oggettivi. Abbiamo riscontro del fatto che dentro a questa rete operino imprese non molto qualificate, mentre ne restano fuori altre altamente qualificate che però non riescono ad entrare e per questo siamo anche arrivati a rivolgerci all’antitrust. Resta il fatto che per l’eccessiva esportazione dei veicoli all’estero si debba trovare una soluzione: il fenomeno è delicato e significativo e riteniamo che si debba risolvere. Ogni veicolo fuori uso che finisce all’estero, infatti, sottrae fette di mercato all’economia italiana e materiale che a noi demolitori per primi interessa trattare. Tutte queste questioni saranno riassunte in un Manifesto, che presenteremmo alla fine di novembre a Roma, e che vorremmo diventasse un elemento di studio insieme agli organi istituzionali e al legislatore in primis. Il sistema della demolizione è stato protagonista di straordinarie evoluzioni sul piano tecnologico e amministrativo. A fronte degli ingenti investimenti fatti, mettiamolo in condizione di poter operare non solo correttamente, ma anche agevolmente”.