Lo spazio è una delle nuove frontiere. Se nazioni, aziende e università lo perseguono, è perché c’è molto da guadagnarne economicamente, ma anche in termini di sicurezza e qualità della vita. Nonostante i suoi costi esorbitanti.
Una delle difficoltà maggiori quando si parla di missioni spaziali è l’immensa quantità di propellente che serve per spedire qualche quintale di materiale nello spazio. Il missile europeo Ariane 5 G, ad esempio, ha un peso totale di 777 tonnellate per trasportare un carico di appena 16 tonnellate. Usare tutto quel poderoso apparato significa dover pagare circa 7000 euro per ogni chilogrammo messo in orbita. Se poi vogliamo andare a sbirciare un po’ più in là, a distanze interplanetarie, il biglietto diventa davvero salato.
Questo sistema, nonostante l’apparente inefficienza, è l’unico modo che conosciamo di portare satelliti, persone e rifornimenti nello spazio. O si fa così, o resta tutto a terra; c’è poco da contrattare. Gli ingegneri, allora, devono sforzarsi di risparmiare sulla parte più importante dell’impresa: il cosiddetto «carico utile». Si pongono tante domande un po’ taccagne: «come si può rimpicciolire ancora quell’antenna?» «se uso quest’altro materiale il peso di quanto si riduce?» «non c’è modo di far fare a quella sonda il lavoro di due?»
Non ci dormono la notte. E inventano nuovi sistemi di propulsione.
Fino a qualche anno fa l’unico modo per muovere un satellite nello spazio era innescando speciali miscele chimiche, che in una esplosione controllata forniscono la spinta necessaria. Questo è tuttora il metodo più affidabile ed utilizzato, ma richiede molto propellente e i costi sono molto elevati. A partire dagli anni novanta, però, è cominciata l’ascesa della cosiddetta propulsione elettrica. L’aspetto appetibile di un motore elettrico è la sua spaventosa efficienza: è in grado di arrivare negli stessi recessi dello spazio con una frazione del propellente richiesto da un motore «vecchio stile». Ciò è reso possibile dall’uso di una tecnologia molto diversa e da una fonte di energia familiare a chi si interessa di eco-sostenibilità: la nostra stella, il Sole. I pannelli solari usati dalle sonde spaziali non sono molto diversi da quelli sui tetti delle nostre case.
Questa tecnologia permette di alleggerire il carico da trasportare, e il risparmio al momento del lancio è evidente.
Non si può dire però che tutti i problemi siano risolti. Rispetto a quelli chimici, i motori elettrici sono estremamente deboli. Per fare un paragone, è come se un’automobile elettrica fosse in grado di viaggiare al massimo a 5 chilometri orari. Inoltre nonostante i vantaggi di un sistema ad energia solare, ci sono ancora degli obiettivi per noi off-limits. Alcuni obiettivi richiedono comunque troppo denaro, altri non sono fattibili e basta. La necessità anche solo di poco propellente è un grande peso per una sonda interplanetaria.
Entra in scena la vela solare, qualcosa di profondamente diverso. Una vela solare è proprio questo: una grande vela che viene sospinta dal Sole, invece che dal vento.
Non è un pannello solare. Niente celle o corrente elettrica: la luce sospinge fisicamente la vela. Non servono serbatoi, esplosioni o motori, basta il Sole, che lassù non manca mai.
L’idea che la luce fornisca una spinta potrebbe sembrare discutibile. Chi ha mai visto la luce da sola muovere qualcosa? Eppure lo fa in ogni momento. La spinta che fornisce è minore del peso di un fiocco di neve distribuito su una superficie di 3 metri quadrati. Non è un effetto percepibile da un essere umano.
Una vela solare, però, è pensata apposta per sfruttare al meglio questa microscopica forza. Questo si ottiene con una struttura al tempo stesso molto estesa e leggerissima. Una vela solare ideale dovrebbe avere una superficie di diversi ettari e un peso di poche decine di chilogrammi. In questo modo la spinta sarebbe sufficiente a navigare in lungo e in largo per il sistema solare e oltre. Il fatto che non serva una goccia di propellente vuol dire che si può andare avanti a piacimento. La pazienza è l’unico limite.
Gli addetti ai lavori sono allettati dall’idea, ma ci sono ancora delle difficoltà. In primo luogo per ridurre al massimo il peso dell’apparato servono vele di un materiale sottilissimo. La tecnologia odierna ci consente di fabbricare pellicole riflettenti spesse pochi micron (meno di un capello umano), ma non è ancora sufficiente. Inoltre «spiegare la vela» nello spazio è un’operazione più complessa e delicata di quanto sembri. Anche solo farne degli esperimenti richiede molto tempo e denaro.
Queste limitazioni, e la cautela tipica delle grandi agenzie spaziali, hanno fin’ora impedito l’uso sul campo delle vele solari. I passi avanti però ci sono, ed il primo è stato compiuto dalla JAXA, l’agenzia spaziale giapponese. La loro vela sperimentale IKAROS (quadrata, 14 metri per lato) si è dispiegata nel giugno 2010, e ha dimostrato per la prima volta che l’idea funziona davvero. Da allora ha continuato a navigare intorno al Sole inviandoci una grande quantità di preziose informazioni. Dopo i giapponesi è stato il turno della NASA con NanoSail-D2, una piccola vela di 3 metri per lato. Un’altra missione di prova è quasi pronta ad essere lanciata dalla Planetary Society. Progetti ambiziosi stanno nascendo nelle grandi agenzie, ma si tratta ancora di casi ristretti ed isolati. Dobbiamo fare molta strada prima di arrivare alle vele ideali immaginate dagli scienziati, ma la spinta in avanti c’è più che mai.
Resta solo da innalzare le vele, verso uno spazio rinnovabile.