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Così la guida automatica rivoluzionerà le nostre città

Niente più semafori, agli incroci dei sensori organizzeranno il flusso del traffico di auto a guida automatica azzerando i tempi morti

Così la guida automatica rivoluzionerà le nostre città

 

(Rinnovabili.it) – Quanto influisce la società sulla trasformazione della tecnologia e quanto quest’ultima trasforma le nostre società? È la domanda del secolo, che si sono posti anche al MIT di Boston per analizzare gli impatti di una mobilità futura basata su veicoli a guida automatica. Se queste innovazioni troveranno applicazione su larga scala, infatti, dobbiamo attenderci una completa riorganizzazione del tempo in funzione dell’efficienza.

L’addio al motore a combustione interna e al cambio manuale sarà solo un effetto secondario. Quello primario è una radicale metamorfosi dell’idea stessa di viaggio, che avrà ripercussioni ancora largamente sconosciute sulla fisionomia delle nostre città.

Potremmo veder sparire i semafori, in favore di un sistema in cui i veicoli a guida automatica comunicano tra loro per attraversare gli incroci, occupando “slot temporali” decisi dall’infrastruttura informatica che combina i dati, ottimizzando il traffico per far sì che tutti i mezzi debbano variare la velocità il meno possibile. Un incastro perfetto, che mira a ridurre i tempi morti e fluidificare al massimo la mobilità. Questo breve filmato dà un’idea di cosa sta cercando di progettare la crema dell’ingegneria informatica globale.

 

 

Il sistema dovrà tener conto di variabili quali i pedoni, i veicoli per le consegne e i ciclisti, il che rende tutto più complicato e alimenta lo scetticismo verso questo modello dell’ “incastro perfetto”.

La questione è: dobbiamo propendere, anche nella mobilità, per migliorare la qualità della vita delle persone o soltanto velocizzare al massimo i loro spostamenti? Le due cose coincidono? Secondo il Senseable City Lab del MIT potrebbero: la riduzione delle emissioni andrebbe di pari passo con un nuovo concetto di mobilità urbana, pensano i ricercatori, che hanno sviluppato questo modello in collaborazione con il Swiss Institute of Technology e il nostro CNR. La ricerca è stata pubblicata a marzo sulla rivista Plos One.