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L’altra via. La terza

E se innovare volesse dire anche contribuire alla (ri)costruzione di un paese e non solo di imprese?

innovazione

di Nicola Pirina

In pochi credono alle buone notizie, non siamo abituati. Anche i millennials dichiarano che perfino il sogno americano è finito. Ma c’è un’altra via. Quella del fare, senza permesso, dove serve e dove c’è prospettiva. E’ lì che si fa innovazione. E’ lì che si mette il seme per un futuro possibile, produttivo e sostenibile.

Le parole chiave di questa riflessione sono: economia circolare, proattività di reti di reti, analisi dei dati, algoritmi intelligenti, localismo, migrazioni qualificate, attrattività dei luoghi e ascolto. Pensiamo siano queste le chiavi di volta per il prossimo posizionamento dell’innovazione nella nuova normalità post Covid.

E’ vero che i territori, anche quelli più prosperi, sono esposti al rischio di deflagrazione, sia dopo una fase di prosperità che dopo fasi depressive.

Se è più facilmente comprensibile la parabola discendente dei territori in fase di povertà, forse è meno intuibile capire perché i paesi ricchi possono implodere su se stessi. Fanno meno figli e vivono di più (più pannoloni che pannolini), non si riesce a mantenere un tenore di vita adeguato, sono meno i nuovi lavoratori, subentra la necessità di nuove migrazioni, si innalza la probabilità di destabilizzazione degli status quo dominanti.

Sfilacciato il tessuto culturale ed incrementati gli attriti sociali esplode l’equilibrio ex ante.

Se non sono poi impostati correttamente gli scambi commerciali con l’esterno, nel rispetto delle produzioni e dei consumi endogeni, si innesca un’altra profonda nevralgia, perché i mercati, specie se sedicenti liberi, non sono mai indolori. I benestanti possono accumulare più debito, viene meno la fiducia e si incrina l’etica del lavoro, emerge evidente una minor propensione ad esplorare i propri territori ed il resto del mondo.

Non solo i paesi poveri, quindi, sono esponibili alle disgregazioni sociali, politiche ed economiche, com’è peraltro accaduto varie volte in passato, ma anche i grandissimi.

La povertà, l’istruzione, la sanità, l’ambiente, le infrastrutture, l’eradicazione dei reati contro la collettività, le parità di genere, la tutela dei minori e dei portatori di diverse abilità sono solo alcuni dei problemi ricorrenti nelle nostre società. Ma se a problema sommiamo problema provando a cercare soluzione by trial and error non andiamo lontano, tanto più che in genere la soluzione è stata individuare ambiti (sbagliando priorità) e inondare di ingenti risorse sperando in un automatico cambiamento. Sperare, però (al netto delle personali questioni di fede), non è agire strategico né sicuramente agire efficace. Infatti diversi dei paesi poveri che hanno ricevuto aiuti importanti sono più poveri.  E c’è il rischio che nel post Covid avvenga altrettanto anche nei paesi ricchi.

E se innovare volesse dire anche contribuire alla (ri)costruzione di un paese e non solo di imprese? Cioè, è possibile che abbiamo imparato abbastanza da comprendere che le policy top down (e quelle meramente bottom up) non portano risultati efficaci e che fare innovazione possa essere un modello di progresso basato sull’imprenditorialità? E’ possibile che l’innovazione in quanto tale generi mercato? Guardando alla storia socio economica, riportata anche dalla recente letteratura di settore, sembra di si. E in Italia? E’ possibile un invito all’azione di questo tipo? C’è sufficiente energia per provare a costruire un insieme di territori più prosperi e migliori?

L’industria cinematografica nigeriana (oggi 1,5k film all’anno, 1 milione circa di addetti, circa 3 miliardi di giro d’affari, 50 scuole di cinema) nacque con 12k dollari quasi 30 anni fa, ora è all’attenzione di diverse istituzioni finanziarie. Mosse i primi passi in un piccolo studio, da una grande intuizione sostenuta da una visione e da una volontà di riscatto. Allora in Nigeria solo il 20% della popolazione aveva la televisione e meno del 35% delle famiglie aveva l’elettricità.

Nollywood non è un caso isolato di situazioni in cui si sono realizzate crescite esponenziali,  in mercati relativamente nuovi, dove meno ci si sarebbe potuti aspettare.

Con i giganti dei mercati in rallentamento, inoltre, imprenditori, investitori e multinazionali cercano ovunque, nelle economie di frontiera. Dove questo non avviene è perché c’è chiusura e pregiudizio.

Dove accade è perché l’innovazione crea mercato, permettendo lo sviluppo delle aziende e catalizzando le industrie, promuovendo progresso sostenibile ed inclusivo.

Questi sono i territori attraenti.

Il potere dell’innovazione che crea mercato è l’esatto opposto delle società che cercano di aggiustare se stesse, partendo dai mercati finanziari per arrivare alle infrastrutture, passando dai tribunali e dalle scuole. L’innovazione deve essere il processo attraverso il quale una società si sviluppa e cresce, secondo un’armonica visione, sostenibile e umana.

Le innovazioni che creano mercato, tra le altre, possono offrire solide basi economiche, consentire l’accesso diffuso a prodotti e servizi che prima erano irraggiungibili, possono impattare profondamente sullo sviluppo economico dei territori.

Le innovazioni di cui parliamo:

  • fanno leva su modelli di business e catene di valore basate sulla redditività prima che su una presunta crescita aziendale;
  • sono generate da e per un mercato locale, o almeno sono progettate pensando a un mercato locale;
  • comprendono i dettagli dei mercati locali e rendono i prodotti semplici e convenienti per lo stesso.

Economia locale dunque e posti di lavoro locali, basati su necessità e bisogni concreti e reali, che sostengono attività redditizie. All’inizio nulla da esternalizzare, nulla da internazionalizzare, il locale per il locale. Attività malleabili e ridimensionabili alla bisogna, abbandonando la presunta sicurezza di schemi eterni per sempre.

Pensate al caso di chi ha pensato di offrire un’assicurazione gratuita tramite i cellulari, semplicemente permettendo di comprare un certo numero di minuti extra. O al caso di chi, sulla tecnologia sms, ha aggredito un grande mercato dell’home banking dove neanche c’era mai stato il telefono. Gli innovatori veri creano il mercato alterando il modo in cui le cose sono sempre state fatte, identificano le opportunità dove non sembra che ci siano clienti, creano modelli che ribaltano il tradizionale modo di vedere le situazioni.

Non è fantasia, è storia dell’industria dell’innovazione. Per catturare clienti, però, è indispensabile prima creare, fare, generare. La sola speranza non basta.

La Cina è la seconda economia più grande del mondo ma il suo reddito pro capite la colloca nelle fasce medie di reddito ed è arrivata in questa situazione con una delle più prodigiose ascese economiche della storia (nel ‘92 era sotto il Ghana, per capirci).

Fu in quel 1992 che un imprenditore creò un mercato per i forni a microonde e continuò a costruire una delle più grandi aziende di elettrodomestici al mondo (basata sullo sfruttamento dei bassi salari). Quell’imprenditore vide quello che gli altri non vedevano, cioè che l’ultima cosa che chiunque vivesse in un piccolo appartamento soffocante vuole fare: cucinare.

L’ennesimo modello di business basato sulla creazione di un mercato.

Quali sono le barriere d’ingresso per questo schema?

Corruzione, mala gestio o vuoti istituzionali, infrastrutture fatiscenti o inesistenti, debiti formativi e sociali. Sfide insormontabili o affrontabili dalle aziende?

Certamente no, basta organizzarsi ed è qui che emerge con forza il concetto di economia circolare, è qui che gli strumenti predittivi di analisi soccorrono, è qui che si rifonda la capacità di assumere posizioni e prendere decisioni per il cambio di paradigma.

E’ qui che le reti di reti diramano con rapidità i nuovi messaggi e le nuove scelte strategiche.

Se ci pensate molte innovazioni infrastrutturali che ora diamo per scontate sono state il lavoro di innovatori che volevano realizzare e vendere i loro prodotti in modo più efficiente.

Ogni territorio ha in sé il potenziale per una crescita straordinaria, è però necessario che individui opportunità significative nei mercati di frontiera. La maggior parte dei prodotti esistenti ha il potenziale per creare nuovi mercati in crescita se li rendiamo più convenienti. Un’innovazione che crea mercato offre molto di più di quella che crea un semplice prodotto o servizio. Gli ostacoli possono essere mitigati non necessariamente eliminati, perchè quando l’innovazione mette radici il contesto migliora ed i vari stakeholders interessati di conseguenza si autoincentivano all’azione. E’ un processo nel tempo. Se l’innovazione è generativa e non estrattiva è facile anche da dimensionare in base alle necessità delle persone e dei luoghi.

La chiave per far breccia nelle economie di frontiera non sta nello sfruttare i mercati esistenti, sebbene ciò possa portare comunque ad un certo successo. Sta nel creare nuovi mercati che servano i miliardi di consumatori non in grado di trovare un prodotto o un servizio per aiutarli a risolvere un problema importante.

Il processo attraverso il quale vengono creati quei mercati, anche nelle circostanze meno probabili, è quello che gli investitori e gli imprenditori devono far proprio.

Nicola Pirina, www.kitzanos.com