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Zone umide costiere, dal ’99 persa un’area grande 75 volte Milano

Zone umide costiere: in 20 anni persi 4.000 km2, metà delle coste dell’Italia
Foto di deanthebean da Pixabay

Lo studio sulle tidal wetlands è pubblicato su Science

(Rinnovabili.it) – Negli ultimi 20 anni abbiamo distrutto o degradato 13.700 km quadrati di zone umide costiere in tutto il mondo, un’area grande 75 volte la città di Milano. Tra i principali responsabili ci sono azioni umane dirette tra cui l’acquacoltura, l’agricoltura e l’espansione delle aree urbane. Ma anche l’innalzamento del livello dei mari e i processi di erosione costiera svolgono un ruolo.

Nello stesso lasso di tempo, però, gli sforzi per ripristinare questi ecosistemi preziosi soprattutto per la biodiversità e per il ruolo di efficaci pozzi di carbonio hanno dato i loro frutti. Dal 1999 al 2019, infatti, il combinato disposto dell’azione di ripristino guidata dall’uomo e dei processi naturali di ripresa delle zone umide costiere ha ripristinato 9.700 km2, il 70% della superficie degradata. La perdita netta, quindi, batte sui 4.000 km2. Per paragone: se immaginiamo una fascia lunga e sottile, coprirebbe metà delle coste italiane.

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A rivelarlo è il primo studio che realizza una valutazione globale dello stato di salute delle “tidal wetlands”, usando principalmente l’analisi di immagini satellitari in combinazione con il machine learning. “Le zone umide costiere sono tra gli unici ecosistemi del pianeta in grado di sequestrare il carbonio in perpetuo e, a differenza delle zone umide d’acqua dolce, non emettono metano. Inoltre, ci proteggono dalle tempeste, possono crescere verticalmente per seguire l’innalzamento dei mari e generano grandi quantità di pesce”, spiega Mark Spalding dell’università di Cambridge, co-autore dello studio apparso su Science.

Dall’analisi satellitare emerge anche un dato sull’estensione globale delle zone umide costiere più accurato di quelli disponibili fino a oggi: sarebbero 354.600 i km2 di tidal wetlands sul pianeta. Quelle principali si trovano nel delta del Rio delle Amazzoni, nel nord della baia del Bengala, in Nuova Guinea e nel delta del fiume Niger. Un’idea più precisa della loro estensione permetterà anche di calcolare meglio l’apporto di questi ecosistemi nella lotta al cambiamento climatico in termini di stoccaggio di CO2.

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