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Le aree a sviluppo intensivo sono più vulnerabili al COVID-19?

sviluppo intensivo
Foto di MichaelGaida da Pixabay

di Isabella Ceccarini

(Rinnovabili.it) – Si ripete spesso che la salute dell’uomo è collegata a quella del Pianeta, e le condizioni ambientali, sociali ed economiche possono influenzare la diffusione di molte patologie, come tanti studi hanno dimostrato. La pandemia che stiamo vivendo prova con particolare intensità l’esattezza di tali studi.

La Scuola di Agraria dell’Università di Firenze ha condotto un’interessante analisi in collaborazione con la segreteria tecnico-scientifica dell’Osservatorio Nazionale del Paesaggio Rurale e con la Divisione Ricerche Finanziarie della Banca Centrale Europea (BCE) per vedere se in Italia esista una correlazione tra la diffusione del Covid-19 e i livelli di sviluppo intensivo del territorio determinati dalle attività socio-economiche. I risultati di questo studio – condotti da Mauro Agnoletti, associato nel Dipartimento di Gestione dei sistemi alimentari agricoli e forestali (GESAAF) dell’Università di Firenze, Francesco Piras, borsista di ricerca della Scuola di Agraria Università di Firenze e Simone Manganelli, direttore della Divisione Ricerca della Banca Centrale Europea – sono stati pubblicati sulla rivista internazionale “Landscape and Urban Planning” e sulla “Working Paper Series” della BCE.

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La suddivisione del territorio

Il territorio nazionale è stato inizialmente suddiviso in quattro categorie

aree rurali urbane e periurbane che comprendono aree ad alta intensità abitativa, con alta concentrazione di attività industriali e agroalimentari con forte impatto ambientale; 

aree ad alta intensità energetica, ovvero aree di pianura con agricoltura intensiva e stabilimenti agro-industriali. Anche qui l’impatto ambientale è forte;

aree a media intensità energetica, in cui rientrano le aree di collina e di montagna, prevalentemente o significativamente rurali dove l’attività agricola è complementare ad altre attività, e comunque meno intensiva;

aree a bassa intensità energetica, che comprendono aree di montagna o di collina tra le meno popolate del Paese, che negli ultimi decenni sono state caratterizzate da significativi fenomeni di abbandono da parte della popolazione.

Al termine dell’indagine, l’Italia è stata divisa in due macroaree in base al modello di sviluppo, ovvero alta e bassa intensità. I dati della Protezione Civile (ottobre 2020) evidenziano che nelle aree a bassa intensità e meno industrializzate ci si ammala quasi tre volte di meno rispetto a quelle industrializzate. Risulta inoltre che «le differenze dei contagi sono più significative se calcolate proporzionalmente al modello di sviluppo rispetto al calcolo con la sola densità demografica. In particolare le aree più colpite risultano essere la Pianura Padana (dove si registrano il 70% dei casi Covid-19 in Italia), il fronte adriatico dell’Emilia Romagna, la valle dell’Arno tra Firenze e Pisa, le zone intorno a Roma e Napoli. Le aree ad alta intensità sono anche quelle più soggette a inquinamento causato da nitrato, metano ed emissioni di ossido nitroso, che incide sulla qualità ambientale. Le aree rurali a bassa intensità energetica sembrano le più sicure rispetto alla diffusione del virus».

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Cosa si deduce dalla lettura di questi dati? Che il progressivo abbandono delle aree rurali che ha fatto aumentare la concentrazione di popolazione nelle città, con conseguenti gravi squilibri sociali, ambientali e di salute si dimostra nei fatti una scelta non sostenibile. Una strategia lungimirante sarebbe quella di rivitalizzare le aree interne dotandole di infrastrutture e servizi in grado di renderle un posto piacevole in cui vivere, più a misura d’uomo. Non si deve dimenticare che proprio in queste zone, ricche di biodiversità, si concentra gran parte delle risorse paesaggistiche, culturali ed enogastronomiche che possono costituire un importante volano di sviluppo sostenibile dei territori. La ripartenza dell’Italia può iniziare da qui.

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