La Cop26 di Glasgow stabiliva il phase out dei sussidi fossili “inefficienti”
(Rinnovabili.it) – Da 28 anni esistono dei negoziati internazionali sul clima che hanno l’obiettivo di abbattere le emissioni di gas serra. Ma in questi 3 decenni, la diplomazia climatica non è mai riuscita davvero ad affrontare la causa principale dietro l’aumento della concentrazione di anidride carbonica, metano e altri gas climalteranti: le fonti fossili. Il primo, vero passo avanti è arrivato alla Cop26 di Glasgow, nel 2021. L’accordo finale stabiliva un doppio impegno: ridurre gradualmente (phase down) l’uso di carbone, e ridurre progressivamente a zero (phase out) i sussidi ai combustibili fossili. Alla Cop28 di Dubai, al via il 30 novembre, questi temi restano al centro dell’agenda internazionale.
Gli investimenti nel carbone continuano a crescere: +10% nel 2023
Sul carbone il consenso internazionale è ormai piuttosto radicato. Non solo perché si tratta della fonte fossile più sporca. Non solo perché G7 e G20 hanno fatto proprio questo obiettivo e hanno diminuito (non senza sbavature) i loro investimenti all’estero in questo ambito. Il consenso c’è perché scommettere sul carbone è diventato antieconomico.
Ciò nonostante, paesi come Cina e India continuano ad aumentare la loro capacità installata. Gli impianti programmati da Pechino arrivano a 243 nuovi GW, pari al 70% della pipeline globale. Con le nuove autorizzazioni concesse nel 2023, si stima che la capacità totale di carbone della Cina crescerà del 23% entro il 2027, ma contando anche gli impianti in pre-permitting la cifra sale a +33% entro il 2029. Circa ¼ degli investimenti nei colossi cinesi del carbone arriva da fondi e altri attori finanziari basati negli Stati Uniti.
Oggi il carbone assicura ancora 1/3 della generazione elettrica globale, anche se la quota è in diminuzione grazie alla crescente penetrazione delle alternative rinnovabili nel mix elettrico di molti paesi. Secondo lo scenario dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) per la transizione verso emissioni nette zero, pubblicato nel 2021 e aggiornato quest’anno, entro il 2040 bisogna eliminare tutte le emissioni non abbattute delle centrali a carbone e delle industrie ad alta intensità energetica che lo usano, come il settore del ferro e dell’acciaio.
Nonostante molti paesi a economia avanzata stiano riducendo gli investimenti nel carbone, a livello globale il dato è in aumento. Nel 2023 dovrebbero crescere del 10% rispetto all’anno prima, arrivando a quota 150 miliardi di dollari. Delle 1.433 compagnie censite dalla ong Urgewald nella Global Coal Exit List, solo 71 hanno fissato una data per uscire dal carbone mentre ben 577 aziende continuano a espandere i loro asset.
In 3 anni, i sussidi ai combustibili fossili segnano +40%
Se sul fronte del carbone l’addio non sta procedendo bene, la situazione dei sussidi ai combustibili fossili nel loro complesso va peggio. La Cop26 di Glasgow si è chiusa con l’impegno, messo nero su bianco in termini fumosi, a “eliminare gradualmente i sussidi fossili inefficienti”. Ma non dà una definizione di cosa significhi “inefficienti”.
Un’ambiguità sufficiente a permettere ai paesi di continuare le politiche attuali senza variazioni incisive. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI), tra 2020 e 2022 i sussidi sono cresciuti di 2.000 miliardi di dollari, raggiungendo un totale di 7.000 miliardi. La Cina, da sola, ne fornisce 2.200 miliardi, pari al 12,5% del suo pil. Ma il problema è globale: spendiamo ancora in supporto a petrolio, gas e carbone il 7,1% del pil globale, quasi il doppio delle risorse che mettiamo per l’educazione.
Sempre secondo il FMI, di questi 7mila mld $ la maggior parte è costituita da sussidi ai combustibili fossili “impliciti”: il mancato conteggio dei costi ambientali e dell’applicazione di tasse sui consumi vale 5.700 mld. Mentre i sussidi “espliciti”, ad esempio nella forma di sostegno alla popolazione contro il caro energia, ammontano nel 2022 a 1.300 mld $ (il doppio rispetto al 2020). A livello di G20, secondo l’International Institute for Sustainable Development, nel 2022 il denaro pubblico incanalato verso petrolio, gas e carbone è arrivato a 1.400 miliardi di dollari, in crescita di 7 volte rispetto ai livelli del 2021.
Italia maglia nera
Su questo fronte, l’Italia non sta facendo la sua parte. Nel 2016 era il paese del G7 con i maggiori sussidi ai combustibili fossili in rapporto al pil (14,8 miliardi di euro l’anno). E sono in crescita. Per il FMI, la quota sarebbe lievitata dai 40 miliardi di dollari del 2020 ai 63 del 2022, quasi il 3 per cento del pil nazionale. E tra i paesi che a Glasgow avevano promesso lo stop ai finanziamenti alle fossili all’estero, Roma è quasi il peggiore: da inizio 2023 ha sborsato almeno 1,2 miliardi di dollari in sussidi pubblici per progetti fossili in tutto il mondo: Indonesia, Perù, Uzbekistan, Brasile, Mozambico, Vietnam e Turchia. La 2° peggior performance dopo quella degli Stati Uniti.
Per questa ragione, 5 associazioni italiane – ActionAid Italia, Focsiv, Movimento Laudato Si’, ReCommon e Wwf Italia – insieme a 29 organizzazioni della società civile africana in questi giorni hanno chiesto al governo Meloni di impegnarsi a “interrompere i finanziamenti pubblici internazionali di progetti fossili”, a partire dal “miglioramento delle policy di SACE e Cassa Depositi e Prestiti (CDP)” e dall’impegnarsi per “l’aumento di capacità di spesa delle banche multilaterali di sviluppo per una transizione energetica a zero emissioni e che affronti la crisi del debito dei paesi a basso reddito”.
I sussidi fossili alla Cop28
Cosa ci si può aspettare dalla Cop28 di Dubai su questo dossier? Il tema dei sussidi ai combustibili fossili resta uno dei più spinosi. Anche perché collegato, quest’anno, al nodo cruciale dei negoziati: un accordo globale sul phase out di tutte le fonti fossili, da intrecciare con altri due target globali: triplicare le rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica, entro il 2030.
Le resistenze al phase out delle fossili vengono da molti paesi, ed è possibile che un irrigidimento di stati come i maggiori produttori di petrolio e gas (come Arabia Saudita e Russia), ma anche di una potenza economica che lega la sua ascesa alle fossili come la Cina, congeli i negoziati e anche impedisca di fare passi avanti anche sul fronte dei sussidi. D’altronde, proprio Riad e Mosca sono da sempre tra i più contrari a modificare, ampliare e migliorare la locuzione sui sussidi fossili “inefficienti”, in tutte le sedi multilaterali.
Fare passi avanti sui sussidi, invece, è una priorità per l’agenda di molti paesi. Il piccolo gruppo EIG (Gruppo d’integrità ambientale), che annovera Svizzera, Georgia, Liechtenstein, Monaco, Messico e Corea del Sud. Ma anche la High Ambition Coalition, un gruppo informale che ha svolto un ruolo importante sia alla Cop21, ottenendo il riferimento al target degli 1,5°C, sia alla Cop26. Ne fanno parte molti paesi europei (come Spagna, Francia, Germania, Olanda, Gran Bretagna) più altre economie avanzate (Nuova Zelanda), paesi in via di sviluppo (Cile, Colombia), piccoli stati insulari (Fiji, isole Marshall). Progredire sui sussidi è prioritario anche nel contesto del gruppo formale di riferimento per i piccoli paesi insulari (l’AOSIS). Così come lo è per l’Unione Europea.