(Rinnovabili.it) – Tutti i nuovi edifici, gli sviluppi urbani e i principali interventi di recupero dovranno essere carbon-neutral entro il 2030. Non è uno dei tanti obiettivi infilati con ampia dose di ottimismo e ben poco senso pratico nel documento finale della COP21. Questa è la frase che racchiude il senso di un’iniziativa lanciata ormai 10 anni fa, Architecture 2030 Challenge for Planning. Con la sua portata globale doveva spalancare le porte alla sostenibilità in architettura e contribuire a celebrarne le magnifiche sorti e progressive. Quanto siano, appunto, progressive, vale a dire quanto è stato realizzato dell’obiettivo prefisso, lo si potrà stabilire con certezza solo nel 2030. Ma non è certo troppo presto per fare il punto della situazione, magari con un orizzonte più allargato.
Lo ha fatto Lance Hosey, esperto di greenbuilding e LEED fellow, e il risultato è una voce fuori dal coro. Un coro che a suon di statistiche, dati, grafici e previsioni roboanti, annuncia a intervalli regolari la crescita di un segmento di mercato, la veloce diffusione della sostenibilità in architettura, i target raggiunti e i record frantumati. Hosey, al contrario, è intervenuto a gamba tesa con un articolo pubblicato su Common Edge dal titolo quanto mai eloquente: “Perché gli architetti non ce la fanno”.
Dal momento che l’edilizia pesa per metà dell’energia e per tre quarti dell’elettricità consumata negli Stati Uniti, ragiona Hosey, l’obiettivo di Architecture 2030 è assolutamente essenziale. E i primi passi sono stati promettenti: dal 2010 l’American Institute of Architects (AIA) raccoglie i dati dei nuovi progetti. Nei 5 anni per cui sono disponibili dati (2010-2014), la superficie interessata dai progetti si è moltiplicata di 700 volte (da poco più di 300mila mq a ben più di 200 milioni di mq). Ma con quali risultati?
Pessimi, calcola Hosey. La riduzione del consumo energetico doveva arrivare al 60%, invece si è fermata a un misero 35%. Ma c’è anche di peggio. Questo è un semplice dato, mentre vanno indagate le cause profonde. E la causa principale, secondo l’esperto di greenbuilding, è che della sostenibilità in architettura, in realtà, agli architetti non interessa poi molto – o, peggio, non ci arrivano proprio. Un giudizio tagliente che però va giustificato. Hosey snocciola altri numeri. L’AIA ha 80mila membri in 18mila studi, quindi per le sue dimensioni vale come perfetto campione statistico. Ebbene, di queste migliaia, sono solo 360 gli studi che hanno sottoscritto l’impegno per il 2030 e solo 140 quelli che, di fatto, contribuiscono pubblicando i dati dei consumi energetici dei loro progetti.
La fotografia è chiara. Ma quali sono le cause? Secondo Hosey, un dannosissimo pregiudizio: che la sostenibilità in architettura sia argomento mainstream, quindi conosciuta apprezzata e praticata da tutti, soprattutto da chi di professione è architetto. Tanto che, per esempio, dal 2012 l’AIA non tiene più corsi di aggiornamento professionali sulla progettazione sostenibile proprio “perché le pratiche di design sostenibile sono diventate mainstream”. Ma non sembra proprio così, a giudicare dai risultati.
E poi Hosey scaglia altre frecce: quello dell’architetto-artista è uno dei più duraturi miti sulla professione, da sfatare perché giustifica le stravaganze più dannose e cariche di sprechi. O ancora: se nessuno aggiorna schiere e schiere di architetti, come fanno a convincersi che il greenbuilding non è più costoso dell’architettura tradizionale, come invece era una volta? Per chiudere con un’ultima considerazione. Esistono studi che dimostrano che l’impatto di un edificio è determinato al 90% dalle decisioni prese nelle fasi preliminari della progettazione (luogo, orientamento, forma, finestrazione): per Hosey il design non è quindi separato e distinto dalla sostenibilità, bensì ne è la chiave.