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Six Senses, la chef Nadia Frisina e il senso della natura

Il nuovo hotel Six Senses a Roma è un modello di sostenibilità. L’Executive Chef del ristorante, Nadia Frisina, smentisce i luoghi comuni che vogliono i templi del lusso dediti allo spreco e soprattutto lo dimostra con scelte precise: a tavola ci si riconnette con la natura nel segno del massimo rispetto per il cibo e per chi lo produce

Credit Luana Failla

di Isabella Ceccarini

Six Senses è un nuovo hotel di lusso nel cuore di Roma. Essenziale ed elegante in ogni dettaglio, un progetto di sostenibilità assoluta che coinvolge la mente, il corpo e l’anima. Nadia Frisina Executive Chef del ristorante Bivium ristorante-caffè-bar al piano terra e del Notos, al centro di un panorama mozzafiato sulla terrazza dell’ultimo piano – è un tassello fondamentale di tanta bellezza e di un modo nuovo di intendere l’ospitalità.

Come ha detto Neil Jacobs, Chief Executive Officer del gruppo Six Senses, «l’ospitalità non è mai solo un posto dove stare»: qui si ha l’impressione di riconnettersi con la natura.

Ci sediamo con Nadia Frisina a un tavolo dove ci portano acqua naturale in una brocca di terracotta. Niente plastica, cominciamo bene. E si continua meglio: qui i rifiuti del ristorante si compostano in loco e c’è un controllo rigorosissimo per separare i materiali.

Parlando con Nadia Frisina ci si sente proiettati in una dimensione dove la sostenibilità è sensuale, ci avvolge con i suoi profumi e un sincero rispetto della natura.

Il lusso non va d’accordo con la sostenibilità? Lo spreco alimentare è qualcosa a cui non si bada in un contesto così prezioso? Niente di più falso, spiega Nadia Frisina, soprattutto perché contrario ai principi ispiratori della catena Six Senses.

Credit Luana Failla

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I tuoi ospiti sono attenti alla stagionalità, cercano prodotti del territorio?

Sì, anche perché la maggior parte di essi conosce il gruppo alberghiero Six Senses, e sa che crede davvero nella sostenibilità. Anche chi viene per la prima volta è ben impressionato dalle nostre scelte.

Qui, ad esempio, non ci sono il mango né l’ananas, ma diamo delle alternative regionali e stagionali che hanno un gusto incredibile. Nel buffet della colazione c’è un solo tipo di yogurt che ha un gusto pieno al punto da sembrare un dolce creato da Madre Natura, nessuno ne chiede uno diverso.

Non compro frutta e verdura dalla grande distribuzione. Ho un consorzio di piccoli contadini che raccolgono per me quello che mi serve direttamente dal campo: niente matura nelle celle frigorifere, ma direttamente nel campo e ha tutt’altro sapore.

Vogliamo sostenere nel mercato questa agricoltura eroica. Quando compro il miele dell’Etna fatto dall’ape nera che è in via di estinzione, io non compro semplicemente un prodotto, io sostengo Rosario e l’ape nera.

Anche i metodi di cottura sono semplificati: cerchiamo di rispettare gli ingredienti alterandoli il meno possibile.

Ma il miele dell’Etna non è a chilometro zero.

Attenzione, perché rischiamo che il chilometro zero diventi un parametro oscurantista. Posso pure trovare un miele a chilometro zero che non rispetta nulla della tradizione italiana, fare le cose lente, seguire i tempi della natura. Magari è prodotto nel Lazio ma con processi industriali, con antibiotici, etc.

Credo che dovremmo vedere il chilometro zero più in un’ottica di compensazione di CO2 che di distanza geografica.

Faccio un altro esempio. Ho scelto la burrata del consorzio di Andria, che è un’eccellenza e so come la producono: piccoli caseifici che fanno da generazioni il miglior prodotto possibile. Infatti la offro ai miei ospiti così come il caseificio l’ha prodotta, nella sua freschezza e nella sua interezza. È una forma di rispetto per chi l’ha prodotta.

Una tecnica di cottura molto in voga è quella sottovuoto, ma come la mettiamo con la plastica?

Eliminare la plastica è una grande sfida in cui ci siamo impegnati.

I menù stellati ci hanno abituato alle cotture sottovuoto, io non cuocio niente sottovuoto. Nella mia precedente esperienza, la mia squadra conservava le porzioni di minestrone sottovuoto, c’era una persona appositamente dedicata a chiudere tutte quelle bustine.

Un dramma dal punto di vista del profitto, dell’ambiente e del lavoratore. Ma che senso ha la giornata lavorativa di un ragazzo che passa la notte a chiudere centinaia di buste? Quel tempo vorrei che lo impiegasse per cucinare, per fare laboratorio, non per chiudere le buste sottovuoto.

I grandi manuali di cucina sono stati scritti prima che fosse inventata la cottura sottovuoto, oggettivamente non ne abbiamo bisogno.

Come tecnica di conservazione uso la cera d’api, che è ideale per la carne (la immergo nella cera e la faccio asciugare, prende un sapore e una morbidezza eccezionali), uso le spezie, uso i sottaceti che facciamo noi. Abbiamo fatto una simulazione: processando 200 kg di vegetali abbiamo realizzato zero spreco e trasformato tutte le parti residue in brodi, polveri o chips.

Come abbiamo visto, Nadia Frisina è molto attenta alla scelta delle materie prime. Il suo utilizzo di grani antichi segue ragioni sia culturali che alimentari.

Ci racconta che i grani antichi di Lazio, Abruzzo e Marche sono sempre stati fondamentali per lo sviluppo di quest’area. Durante il fascismo vennero sostituiti con grani più forti e più ricchi di glutine per garantire un apporto proteico alle popolazioni. Quindi grani come Rieti, Solina e Iervicella sparirono.

«Oggi un gruppo di coltivatori ha ricominciato a coltivarli, c’è un disciplinare, vengono macinati a pietra e li usiamo per fare pizza, pane, cracker, focacce. In questo modo riduciamo l’apporto del glutine nel grano, aumentiamo la digeribilità, la leggerezza e diamo un prodotto ricco di fibre e nutrienti, e soprattutto supportiamo questa agricoltura eroica».

Hotel & Resort Photographer

Non si corre il rischio che disciplinari troppo rigidi siano come una rete bucata?

Quando un disciplinare con certificazioni biologiche richiede tantissimi cavilli non so fino a che punto sia utile. Va a finire che le aziende piccole non ce la fanno a sostenere i costi di tutti quei cavilli del disciplinare, così decidono di uscirne, ma sono loro le vere realtà dinamiche e biologiche.

A me non basta il certificato, vado di persona a vedere come fanno le cose. È questo che fa la differenza, non ci si fida più del bollino proprio perché c’è un abuso del bollino, dal punto di vista del consumatore è una giungla.

I piccoli produttori cercano di aprirsi un varco nel mercato.

Certamente. Qui a Roma vedo che stanno crescendo le realtà di contadini che recapitano regolarmente nelle case le cassette con frutta e verdura ordinate online.

Qualcosa sta cambiando, ma il problema sono i costi. Quelli della grande produzione sono più bassi. Così chi ha un budget limitato è obbligato a fare certe scelte per sfamarsi.

La vera rivoluzione sarà quando la sostenibilità sarà alla portata di tutti. Quando anche una famiglia con uno stipendio “normale” potrà acquistare cibi sostenibili a un prezzo abbordabile, sono sicura che sceglierà quelli.

Però la consapevolezza è cresciuta, specie dopo il Covid, è come se alcuni si fossero svegliati.

In qualcuno ha lasciato un’impronta importante. Io ad esempio desidero lavorare non solo per guadagnare uno stipendio ma per essere felice nel creare i miei piatti: il processo creativo è qualcosa che appaga tantissimo, ti nutre l’anima.

Le persone devono scegliere, ma anche essere informate. Andiamo a mangiare fuori una volta in meno, ma meglio, e sosteniamo i produttori virtuosi. È una scelta di vita.

Cosa ti ha colpito in giro per il mondo?

In Vietnam – dove c’è una natura bellissima nonostante la guerra abbia lasciato segni atroci sul territorio – mi sono resa conto che quello che si dice nei telegiornali non è una balla ma una tremenda verità.

Vicino ai resort affacciati su un mare meraviglioso ci sono grandissimi cartelloni pubblicitari che hanno lo scopo di nascondere enormi isole galleggianti di plastica. Quelle isole le facciamo noi, hanno un volume che non si immagina.

I paesi più poveri si prendono la nostra plastica, ma alla fine tutto torna a noi in un movimento circolare. Ho letto che la produzione di plastica è arrivata a un punto di non ritorno, in 30 anni ha invaso il mondo, stiamo morendo di plastica.

Ecco perché qui trovi acqua purificata e arricchita di sali minerali nella bottiglia di ceramica fatta a mano, non perché sia bella.

Non abbiamo più bisogno della bottiglia d’acqua firmata o del menù delle acque per capire che siamo in un posto dove si mangia bene.

Tradizione, innovazione e ricerca. Cosa ispira di più la tua cucina?

Ricerca, sicuramente, poi la curiosità e la golosità. Ovviamente quando cucino voglio raccontare una storia, chi sono io.

Infatti sul tuo profilo Instagram c’è scritto Chef & Donna Siciliana, un’identità precisa che si riflette sulla tua cucina.

Quando i sous chef formano i nuovi chef spiegano che la mia cucina fa sentire i sapori in maniera più delicata, femminile.

Essere donna nella ricetta si sente, traspare come un punto di forza, non di debolezza. La delicatezza, l’eleganza, non sono debolezza ma rispetto della materia prima.

È bello il concetto di rispetto della materia prima.

Credit Luana Failla

È lì che si vede la maestria di chi tocca la materia prima, se la rispetta o la distrugge. È fare le cose con i tempi giusti nei modi giusti, è tornare alle radici dei sapori, alla loro pulizia. Abbiamo prodotti così buoni che è un peccato trasformarli.

Quando in un piatto vediamo cubetti di melone di 1 cm x 1 cm ci sembrano belli e li fotografiamo, ma questo significa che là dietro c’è un cuoco che ha lavorato con il righello e magari non arriverà mai a mettere in padella quello che ha tagliuzzato. Io preferisco puntare semplicemente su una materia prima eccezionale e sulle persone.

Il nostro è un lavoro bellissimo, abbiamo la fortuna di accogliere persone che si vogliono divertire, ridere, gioire. Lavoriamo per costruire dei momenti belli.

Ma se dietro non c’è un benessere, un rispetto della persona nelle sue età e nelle sue competenze è chiaro che la maggior parte delle persone si allontana da questo mondo. Anthony Bourdain fece emergere le tensioni che si nascondevano dietro le apparenze.

Quanto si spreca in un ristorante di lusso?

Rimaniamo sicuramente entro limiti accettabili, anche perché alcune scelte del menù sono finalizzate a spreco zero o comunque a sprecare meno possibile.

Lo spreco si evita partendo dallo studio del menù e dagli ingredienti che usi. È tutto circolare e attentamente programmato.

Ad esempio, non compro parti di animali, ma il pollo o l’anatra interi. Così riesco ad avere zero spreco: con il coscio fatto il cosciotto confit, col petto faccio il ragù, con le ossa faccio la salsa. Quindi non c’è spreco, quello che rimane va nell’organico e si trasforma.

Non compro pangrattato, è il residuo che viene seccato e sbriciolato. Serviamo le nostre pesche sciroppate croccanti, il giorno dopo diventano uno smoothie.

Prendiamo il gambero rosso: lo servo crudo, con le teste faccio un guazzetto che poi diventa un fusillo al pistacchio con fondo di gambero. A un ingrediente ho dato tre vite: salsa, antipasto e primo piatto.

Quello che ci ispira è la trasversalità dell’ingrediente, non vederlo solamente in un modo ma in tutte le sue possibili declinazioni.

Ecco perché la descrizione diventa semplice. C’è scritto coscia di anatra confit, ovviamente non c’è scritto che viene da un’aia selezionata in un paesino toscano dove gli animali si allevano con cura, completano il loro ciclo di vita, non prendono antibiotici.

Credit Luana Failla

Probabilmente chi viene qui si aspetta un’attenzione particolare alla materia prima.

Esatto. C’è uno storytelling dietro ma non lo ostentiamo, non vogliamo essere “comprati” per l’anatra bio, vogliamo essere autentici. Le cotture sono semplici, molte cotture al vapore, lente, e soprattutto torna al centro la materia prima.

Anche nella scelta del pesce la linea è la stessa. Non ci sono pesci d’allevamento, cosa che tra l’altro non è consentita dal gruppo Six Senses, non uso il salmone, non seguo le mode alimentari.

Quando ci concentriamo tutti su una cosa, non diversifichiamo più la nostra dieta. La Dieta Mediterranea è famosa per la varietà degli ingredienti: una volta si seguiva un calendario settimanale degli alimenti, il giorno dei ceci, il giorno del pesce, il giorno della carne.

La cucina deve emozionare o stupire?

La cucina è nutrire, è deliziare. Non ho bisogno di stupire, quello che più mi fa piacere è emozionare.

Qual è stato secondo te il cambiamento più dirompente degli ultimi anni?

Il fallimento totale di ristoranti molecolari e fusion o di chi ha preso premi senza merito.

Di recente un grande chef ha scelto di non volere le stelle, sennò cucinare non è più un piacere ma una competizione.

È una competizione spietata. Se pensi che nel nostro lavoro non c’è copyright, quando ho un’idea nuova la metto nel mercato, chiunque la può rifare. Questa però è anche la bellezza e la grandezza della cucina, il fatto che non appartiene a nessuno ma a tutti.

Posso replicare il piatto più complicato del mondo ma magari non riesco a ricreare l’intenzione di quel piatto, perché la base emozionale è l’ingrediente segreto che ti porta a quel risultato.

Si parla di introdurre stabilmente l’educazione alimentare nelle scuole.

Grazie all’involontaria educazione alimentare di mia nonna ho avuto la possibilità di avere un palato sviluppato.

Per una questione economica – eravamo una famiglia numerosa, cinque figli, non ci si poteva permettere tutte quelle brioscine dei grandi marchi che uscivano negli anni Ottanta, o almeno non abitualmente – preparava la merenda col panino al sesamo appena sfornato, l’olio d’oliva, il sale e il pomodoro fresco. Era un trionfo di sapori. Quando assaggiavo la brioscina nemmeno mi piaceva, la sentivo artificiale.

Il cibo non deve essere un compenso. Impariamo a dire alcuni no col sorriso, diamo delle alternative, facciamo innamorare i bambini della nostra frutta meravigliosa, aiutiamoli a sviluppare l’armonia del gusto.

E poi impariamo e insegniamo a saper aspettare per mangiare. Non è educativo mangiare ovunque e in ogni momento, lo è nel modo e nel momento giusto, nella condizione in cui il cibo arriva nel tuo stomaco e tu sei pronto per digerirlo.

L’alimentazione è un libro aperto. In base a come mangi posso capire quali sono i tuoi traumi infantili. Mangi di notte? Hai bisogno di masticare prima di andare aletto? Appena ti svegli cosa fai? Il secondo cervello è lo stomaco (o forse il primo, ancora non lo abbiamo capito).

Il corpo a volte ci dice persino cosa dobbiamo mangiare quel giorno, quando ti viene una voglia bestiale di qualcosa è segno che il tuo corpo ne ha bisogno. Come quando il corpo ti dice di non mangiare una cosa, perché poi ti fa male. Bisogna imparare ad ascoltare il proprio corpo.

Credit Luana Failla

Il ristorante è inserito nel contesto architettonico molto caratterizzante del Six Senses, che ha fatto della sostenibilità una nota distintiva. Quanto influisce questo “contenitore” sulle tue preparazioni?

Il luogo influenza sempre il menù. Tu arrivi con un tuo menù in testa prima di vedere un posto, poi passi un po’ di tempo in quel posto, lo respiri, ti entra dentro, e allora è lui che comanda e ti dice cosa devi fare.

Quando lavoravo a Venezia era la laguna a dirmi cosa dovevo cucinare. Ovviamente sono io che materialmente cucino e le mie radici emergono, ma è sempre il posto che detta le leggi.

Prima di allora non c’è collegamento, ma quando capisci dove sei e cosa vuole quel posto si realizza una simbiosi. Porto sempre dei cavalli di battaglia, ma tutto il resto si adatta al contesto.

Sconfiggere la fame, Salute e benessere, Parità di genere, Consumo e produzione responsabili. Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 2, 3, 5 e 12 sembrano quasi tagliati su misura per lei. Essere coerenti è solo un dovere, una responsabilità o anche una scelta fatta con il cuore?

Mi viene da dentro e lo sento come un dovere. L’altro giorno ho riflettuto su quanto sia importante garantire all’infanzia il diritto di crescere a contatto con la natura, perché solo quando tu da bambino ti sei emozionato vedendo la natura riesci a capire che va rispettata.

Non importa se sei cresciuto in città o in campagna, non è questo il punto. È una missione dei genitori o degli educatori garantire all’infanzia la connessione con la natura attraverso fattorie didattiche, più lezioni all’esterno che all’interno, attraverso una risposta di come si fanno le cose, la cera, l’olio…

Il “come si fa” nell’infanzia è la connessione con la natura, il cielo, le piante, le pietre… Bisogna creare questa passione nei bambini, da adulti rispetteranno la natura.

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