Quest’anno metà della popolazione mondiale va alle urne, incluso in UE e Stati Uniti, e le politiche per la transizione nei prossimi 5 anni potrebbero diventare meno ambiziose. Gli investimenti potrebbero scendere anche del 55% rispetto ai volumi necessari per arrivare a emissioni nette zero nel 2050, con ricadute su idrocarburi, carbone, CCS, idrogeno low-carbon e rinnovabili
Da Wood MacKenzie, analisi di scenario sui rischi dei ritardi nella decarbonizzazione
Rallentare il ritmo della transizione per i prossimi 5 anni può portarci dritto verso un aumento della temperatura globale di 3 gradi e tagliare del 55% gli investimenti necessari per restare sulla traiettoria giusta per gli 1,5°C. Uno scenario che può diventare sempre più reale quest’anno, tra la marea montante dello scetticismo climatico e le elezioni dall’esito incerto nei paesi che contribuiscono di più alle emissioni di gas serra, tra cui Europa e Stati Uniti. Lo sostiene un’analisi di Wood MacKenzie sui rischi connessi con i ritardi nella decarbonizzazione.
“Con metà della popolazione mondiale che si recherà alle urne nel 2024, la realtà politica e lo scetticismo climatico nei principali paesi emettitori, come gli Stati Uniti e l’Europa, potrebbero ridurre il sostegno alla transizione mentre gli elettori cercano sicurezza economica e stabilità dei prezzi”, spiega Prakash Sharma, autore dell’analisi dell’azienda di consulenza sulla transizione energetica.
Quanto ci costano i ritardi nella decarbonizzazione?
Frenare adesso, anche solo per il prossimo ciclo elettorale, può avere conseguenze rilevanti per i prossimi decenni. Secondo Wood MacKenzie, un ritardo nella decarbonizzazione per i prossimi 5 anni può far scendere i livelli medi di investimenti a 1.700 miliardi di dollari l’anno. Cioè meno della metà del volume che bisognerebbe mobilitare nello scenario che permette di raggiungere emissioni nette zero entro metà secolo. Nel complesso, gli investimenti potrebbero limitarsi ad appena 48.000 mld $ invece dei 75.000 mld $ necessari.
La prima Global Stocktake – la valutazione dei progressi per rispettare l’Accordo di Parigi approvata alla Cop28 di Dubai l’anno scorso – ha chiarito che nessun paese, per il momento, è sulla giusta strada per net zero. In più, alcuni paesi stanno già indebolendo gli obiettivi fissati per il 2030. Compresa l’UE, dove l’opposizione ad alcune misure chiave del Green Deal è diventata sempre più forte negli ultimi 2 anni. Mentre dall’altra parte dell’Atlantico, il possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca potrebbe portare nuovi ritardi nella decarbonizzazione, riproponendo la frenata già vista nel 2016-2020.
Budget di carbonio per 1,5°C esaurito già nel 2027
In questo scenario, calcola Wood MacKenzie, le emissioni globali di gas serra raggiungerebbero il picco solo nel 2032, mentre già nel 2027 avremo consumato tutto il budget di carbonio che ci resta per non sforare 1,5 gradi. Una previsione in linea con molti studi indipendenti pubblicati nell’ultimo anno.
Il picco del petrolio arriverebbe solo nel 2033 e a 6 milioni di barili al giorno in più rispetto allo scenario net zero, soprattutto a causa di un rallentamento nella diffusione degli EV al di fuori della Cina. Il picco del gas sarebbe nel 2045 con 100 miliardi di m3 in più. Mentre il carbone scenderebbe molto lentamente, con una traiettoria il 3% più alta di quella in uno scenario di transizione che raggiunge emissioni nette zero nel 2050.
I ritardi nella decarbonizzazione avrebbero l’impatto maggiore sulla penetrazione delle rinnovabili. Anche se nel lungo termine rimarrebbero la prima fonte di energia, meno investimenti adesso si tradurrebbero in nuovi colli di bottiglia per via di una rete elettrica non abbastanza flessibile. A cascata rallenterebbe anche l’idrogeno rinnovabile e svolgerebbe un ruolo sempre più centrale la tecnologia per la cattura e lo stoccaggio di CO2. Con il risultato di lasciare margini più ampi per la crescita del gas nel mix energetico mondiale.