(Rinnovabili.it) – Nei percorsi di valutazione ambientale (siano essi VIA di progetti che VAS di piani di sviluppo territoriale) il dominio geologico-geomorfologico appare essere compreso tra quelli principalmente trascurati, per ragioni che essenzialmente possono essere individuate nelle seguenti:
- i processi di sviluppo locale che occupano il dibattito politico investono fattori socio-economici che non appaiono avere immediate e/o dirette relazioni con suolo e sottosuolo;
- le Scienze della Terra sono tra le più complesse e pertanto “ignorate” da chi esercita il proprio bagaglio culturale ad un livello “non esperto” nel dibattimento pubblico, sia pure in un contesto decisionale;
- la maggior parte della cartografia per la vincolistica o per aspetti di sensibilità territoriale (vulnerabilità e rischio) utilizzata dagli uffici delle autorità competenti per la decisione ambientale, nell’ambito di piani e progetti, è bidimensionale, spesso affetta da un livello di approssimazione non sempre sostenibile, anche a causa della mancanza di supporti cartografici e tematici in scala adeguata.
In particolare, per la difesa del suolo, si registra spesso, a parere dello scrivente, un eccesso di confidenza che la VIA riversa a favore della normativa del paesaggio, che si esprime sulla mera applicazione di norme di tutela, deterministiche e spesso acritiche, attorno (buffer) alle aree di pertinenza del bene soggetto a tutela. Occorre pertanto rifarsi alle migliori esperienze scientifiche internazionali per irrobustire il sistema di supporto alla decisione in questo campo.
Vasilis Fthenakis, Senior Research Scientist della Columbia University, fondatore del Columbia Center for Life Cycle Analysis, nella sua pubblicazione Land use and electricity generation adatta il calcolo dell’LCA alla stima dell’impatto sulla risorsa suolo. Per una stima e un confronto realistico vanno considerate le varie fasi di trasformazione e gli impatti diretti e indiretti.
La tipologia di processi che animano le diverse catene produttive dell’energia ha infatti un differente peso ed un impatto più o meno diretto in termini di occupazione e trasformazione del suolo. Nel caso del fotovoltaico, ad esempio, gli effetti indiretti sul land use, dovuti all’uso di energia e materiali nel ciclo di vita, sono connessi esclusivamente ai processi di produzione dei moduli fotovoltaici e dei componenti BOS (“Balance Of System”, cioè l’insieme dei dispositivi necessari a trasformare e adattare la corrente continua prodotta dai moduli fotovoltaici alle esigenze dell’utenza), e sono decisamente insignificanti rispetto agli impatti diretti e “visibili” in termini di occupazione di suolo da parte dei pannelli fotovoltaici. Al contrario, l’impatto delle fonti convenzionali basate sull’estrazione dei combustibili fossili è soprattutto indiretto, non legato all’occupazione di suolo delle centrali ma a quella delle fasi di estrazione, lavorazione, trasporto, stoccaggio, ecc.
In proporzione, dato non sorprendente, le centrali alimentate da biomasse usano più terreno di tutte le tecnologie considerate, a causa della quantità di territorio necessario alla coltivazione e alla bassa efficienza energetica dei naturali processi di fotosintesi che presiedono alla formazione della biomassa.
Segue l’idroelettrico a bacino (più di 4.000 m2/GWh), quindi, a grande distanza, l’eolico. In quest’ultimo caso come suolo occupato/trasformato gli autori hanno considerato non l’“impronta” delle torri sul terreno ma tutta l’area di un campo eolico, quindi quasi 50 volte in più, che non è occupata in senso stretto e può comunque assolvere diverse funzioni, dall’agricoltura al pascolo.
Tra le tecnologie energetiche con minore trasformazione di suolo, quasi sorprendentemente, c’è proprio il fotovoltaico che, non necessitando dell’estrazione né del conferimento di alcun “combustibile”, occupa – a parità di energia prodotta (quindi con una potenza installata molto più grande rispetto alle centrali termoelettriche) – lo stesso territorio o anche meno rispetto alle centrali a carbone e a gas naturale.
In più esistono convincenti evidenze del fatto che in diversi casi lasciare a riposo i terreni per almeno 20-25 anni consente a suoli sfruttati e impoveriti di rigenerarsi. Un’altra opzione prevede invece la possibilità di recuperare e ottimizzare una piena funzionalità agricola dei terreni soggetti alle installazioni fotovoltaiche, grazie a caratteristiche innovative delle medesime installazioni, in quello che è stato brillantemente definito “sistema agrivoltaico” (Dupraz, C., Marrou, H., Talbot, G., et al. “Combining solar photovoltaic panels and food crops for optimising land use: Towards new agrivoltaic schemes”, Renewable Energy, 2011).
Tuttavia non va perso di vista che, in base ai risultati dei Censimenti dell’agricoltura, a livello nazionale la superficie agricola utilizzata (SAU) diminuisce circa del 19% rispetto al 1982 (l’incidenza sulla complessiva superficie nazionale passa dal 52,4% al 42,6% nel 2010), con una dinamica negativa che coinvolge tutte le ripartizioni geografiche e che risulta più accentuata nell’intervallo 1990-2000 (-12% circa per l’intero territorio). Ancora più marcata la contrazione della superficie agricola totale (SAT) che, da poco meno di due terzi del territorio (74,1% nel 1982), decresce fino a incidere nel 2010 per il 56,5%.
Inoltre, a fronte di una prima fase in cui i terreni destinati a FER venivano concessi in fitto alle aziende produttrici di energia, oggi sono acquisiti in proprietà dalle aziende di energia: vera e propria perdita di tali aree dal sistema agricolo a favore di quello industriale.
L’attuale crisi del paesaggio rurale può essere assimilata a un processo di erosione, in cui si possono individuare due fasi di transizione: una verso l’incolto, che include le aree agricole interessate da fenomeni di abbandono e rinaturalizzazione, l’altra verso l’urbanizzazione a bassa densità. La sottrazione di suolo fertile all’agricoltura è uno degli effetti diretti. Occorrerà valutare la significatività di tale consumo, ad esempio in funzione della fertilità, dell’assorbimento delle acque meteoriche, degli habitat interessati, etc.
In particolare, permettendo all’erba, ad arbusti ed altra vegetazione spontanea di crescere attorno alle basi degli aerogeneratori, è possibile altresì l’assorbimento dell’ anidride carbonica, cosa non possibile in presenza di asfalto o altro materiale legante non permeabile che dovesse coprire il terreno, che fisserebbe al suolo dei quantitativi di carbonio organico che per diversi anni risulterebbero come “stoccati”. Nonostante si tratti di quantitativi trascurabili, l’impatto sull’ecosistema sarebbe importante, in quanto il cambio d’uso del suolo può alterare localmente il ciclo dell’acqua, possibili problemi di drenaggio meteorico ed anche sulla riflettività del suolo, che può causare variazioni locali dei flussi di energia nel sistema.
di ing. Francesco Corvace, Servizio Ecologia Regione Puglia @francorvax