di Giampiero Guarnerio, Rödl & Partner
Ricarica Auto Elettriche, i rimborsi erogati al dipendente costituiscono reddito tassabile
Così come il 95% degli italiani che ancora non si sono convertiti all’elettrico, il fisco tende a ragionare secondo gli schemi abituali e precostituiti, tarati sulle modalità d’uso delle auto a motore termico (le cd. “ICE”). Nel paradigma d’uso delle ICE, il rifornimento di energia è necessariamente eseguito presso terzi, ovvero i distributori – giacché nessun consumatore possiede una propria raffineria né un rubinetto nel proprio box da cui prelevare il carburante.
Così si tende a pensare che, per essere di comodo utilizzo, le auto elettriche (le “BEV”) saranno comparabili con le ICE solo quando sarà possibile rifornirle “in 5 minuti” presso colonnine iperveloci, diffuse con la medesima diffusione degli attuali benzinai. Ciò senza prendere in considerazione l’opportunità di ricaricarle presso la propria abitazione, perché la ricarica sarebbe “troppo lenta”, ovvero perché il proprio posto auto – quando c’è – non è già dotato di punto di ricarica.
Come si usa normalmente una BEV
In realtà, la BEV ha un paradigma d’uso diverso: perché sia di impiego comodo (e diversamente da quanto pensano i più, in molte circostanze persino più comodo delle auto a combustione), la sua ricarica deve avvenire presso l’abitazione del proprietario, nottetempo. Solo per una parte minoritaria dei casi essa avviene presso colonnine pubbliche.
Per tale modalità di impiego non serve affatto una ricarica casalinga rapida: 7 kWh possono essere più che sufficienti considerando che più si sale con la potenza di ricarica più aumenta il costo della struttura e di conseguenza della ricarica. Per dirla semplice: non succede mai che uno arrivi a casa dopo un viaggio di 400 e più chilometri ed abbia l’immediata ed imprevista necessità di ripartire per un altro viaggio di 400 km nel giro di un quarto d’ora…
Il punto di vista dell’Agenzia delle Entrate
Per parte sua, il fisco segue tutt’ora quel paradigma: il costo per l’energia acquistata per caricare l’auto aziendale è deducibile se e nella misura in cui il distributore di energia “fattura” l’acquisto al datore di lavoro. Tanto che, nella risposta 421 del 25/08/2023 (pdf), l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che qualora il dipendente assegnatario dell’auto aziendale chiedesse il rimborso al datore di lavoro della spesa di energia per ricaricare l’auto presso la propria abitazione, anche se tale energia fosse esattamente misurata, il rimborso costituirebbe reddito tassabile per il dipendente.
Le implicazioni della (non condivisibile) opinione dell’Agenzia delle Entrate
La non condivisibile opinione dell’Agenzia crea un problema alla diffusione delle auto elettriche laddove invece l’approccio del fisco dovrebbe essere neutrale. Partendo dal presupposto normativo per cui fa reddito per il dipendente qualsiasi erogazione in denaro od in natura “percepita” in ragione del rapporto di lavoro, l’Agenzia fonda il suo convincimento su due argomentazioni.
Primo punto: il rimborso delle spese per energia non rientra tra le spese sostenute nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, e quindi va tassato in capo al dipendente. Secondo punto: per effetto della determinazione forfetaria del fringe benefit, “che prescinde da qualunque valutazione degli effettivi costi di utilizzo del mezzo e anche dalla percorrenza che il dipendente effettua realmente”, diviene “del tutto irrilevante che il dipendente sostenga a proprio carico tutti o taluni degli elementi che sono nella base di commisurazione del costo di percorrenza fissato dall’ACI”.
L’Agenzia non tiene conto del fatto che se nel contratto di lavoro è pattuito che il datore di lavoro si obbliga a mettere a disposizione del dipendente un autoveicolo, includendovi tutte le spese di gestione dello stesso, anche la spesa per la ricarica è sostenuta nell’interesse del datore di lavoro. Se mai il datore di lavoro si rifiutasse di rimborsarle al dipendente, violerebbe l’obbligo contrattuale. Ecco, quindi, che l’affermazione di cui al primo punto risulta di dubbia fondatezza. A ben vedere, anche la seconda affermazione dell’Agenzia non pare corretta e contraddice una precedente posizione della stessa Agenzia. È infatti pacifico che laddove al dipendente venisse addebitato in tutto o in parte l’importo del fringe benefit, la parte addebitata non sarebbe per lui tassabile. Affermazione supportata dalla Ris. 6 del 20/02/2008 del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Pare pacifico ritenere, dunque, che se il costo della ricarica casalinga venisse rimborsato, saremmo nel campo della irrilevanza reddituale (è una spesa che deve essere sostenuta dal datore di lavoro, e che attraverso il calcolo del fringe benefit, è già tassata in capo al dipendente), mentre se non venisse rimborsato saremmo nel caso del riaddebito della spesa dal datore di lavoro al dipendente, che ridurrebbe il valore del “fringe benefit” tassabile. L’effetto della posizione espressa dall’Agenzia delle Entrate è quindi di una doppia tassazione in capo al dipendente, il quale versa l’imposta forfettariamente determinata una prima volta attraverso la tassazione del fringe benefit, e una seconda volta attraverso la tassazione del rimborso.
Il percorso per una corretta soluzione
In considerazione della riforma fiscale in corso, l’occasione è giusta per proporre una modifica della fiscalità dei costi auto per renderla confacente al paradigma di utilizzo dell’auto elettrica e più sicura sotto il profilo della prevenzione di eventuali abusi. I rifornimenti di carburante per le auto ICE sono caratterizzati da una certa uniformità. Diversamente, per le auto elettriche si assiste ad una differenziazione estrema sia sui prezzi che sulla accessibilità delle colonnine di ricarica.
Quanto alla variabile prezzo, si può andare dallo “zero virtuale” per chi ricarica coi pannelli solari presso la propria abitazione, ai 20/25 centesimi al kWh con la bolletta di casa, ai 50 centesimi al kWh per le ricariche pubbliche presso colonnine in AC, sino ad € 1,00 al kWh per le colonnine iperfast. Il tutto condito con una pletora assai articolata di abbonamenti e sconti proposti dai vari operatori e che variano zona per zona.
Il problema principale è che il divario tra il costo “pay per use” e quello su abbonamento è clamorosamente elevato. Per comprendere le dimensioni del fenomeno, si consideri ad esempio che il rifornimento presso la stessa colonnina iperfast può costare da 0,45 € a 0,99 € al kWh a seconda dell’accordo con il fornitore. Per giunta, non tutte le colonnine sono “in roaming” con tutti i fornitori. Sicchè la sottoscrizione di un abbonamento con il fornitore “a” non garantisce affatto l’accessibilità alle colonnine del fornitore “b”.
Talvolta sono proprio gli enti locali che, nell’intento benefico di offrire punti di ricarica alla cittadinanza, hanno fatto installare colonnine elettriche che non sono in roaming con gli altri operatori. Tali punti di ricarica divengono sostanzialmente indisponibili per gli utenti di passaggio, cui invece tali colonnine dovrebbero principalmente essere destinate. La situazione è ulteriormente variegata se si viaggia all’estero: le condizioni di pagamento anche col proprio fornitore nazionale (ammesso che sia in accordo di roaming col fornitore estero) possono mutare radicalmente.
Il coacervo di questi fenomeni fa sì che l’utilizzatore medio ed avveduto di auto elettrica abbia 3-4 abbonamenti distinti in corso e che si barcameni tra l’uno e l’altro a seconda delle circostanze di convenienza ed accessibilità del momento.
Questa complessità non sarebbe risolvibile in modo efficiente dal punto di vista aziendale nel presupposto che l’acquisto di energia elettrica debba essere “per forza” effettuato a nome del datore di lavoro come nel mondo delle “ICE”: a meno di andare incontro ad una spesa potenzialmente tripla (ovvero dotando i dipendenti di un unico abbonamento nella più cara versione “pay per use”) è praticamente impossibile avere una gestione efficiente degli acquisti in modo centralizzato: ciascun dipendente ha esigenze diverse, che cambiano anche nel tempo, persino tra un mese e l’altro e zona per zona. A tale complessità si aggiunge il tema della ricarica casalinga e/o presso il datore di lavoro, il cui acquisto “esce” dal circuito degli acquisti da colonnine pubbliche ed è “osteggiato” dall’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate.
La proposta.
La proposta semplificatrice che ci sentiamo di sostenere è la seguente. L’acquisto dell’energia viene demandato personalmente al dipendente, al quale viene riconosciuto sia dal punto di vista contrattuale col datore di lavoro, che dal punto di vista fiscale, un rimborso spese forfetario calcolato sulla base dei chilometri percorsi (dato certo), del consumo omologato (dato altrettanto certo rinvenibile nel libretto di circolazione), applicando ai kWh consumati un prezzo medio di mercato (misurabile dalla ARERA). In questo modo si otterrebbero vantaggi per tutti. Infatti:
- per l’azienda e per il fisco l’importo rimborsato diviene un dato certo, non suscettibile di truffe se non con improbabili alterazioni del numero di chilometri percorsi;
- l’utilizzatore avrebbe tutto l’interesse a gestire nel miglior modo le proprie ricariche, rivolgendosi di volta in volta all’operatore più conveniente a seconda delle circostanze, e/o sfruttando al meglio o comunque incentivandolo a dotarsi di un proprio impianto di produzione di energia rinnovabile;
- l’utilizzatore sarebbe anche incentivato a moderare i consumi (e quindi la velocità di impiego del veicolo), essendo il primo a pagare di tasca propria il maggior costo che deriverebbe da una guida non risparmiosa.