L’associazione pensa che il lavoro sul Recovery plan abbia apportato dei “miglioramenti” ma che si è ancora “soltanto all’inizio”. Alcuni punti saranno fondamentali, come la riforma fiscale, il del potenziamento del sistema dei controlli ambientali pubblici, la rapidità e l’efficacia degli interventi sui siti contaminati, e la riforma dei nuovi strumenti di partecipazione e monitoraggio civico per realizzare le opere pubbliche
di Tommaso Tetro
(Rinnovabili.it) – Il lavoro sul Recovery plan ha apportato dei “miglioramenti” ma è ancora “soltanto all’inizio” dal momento che “non è pienamente corrente con le politiche europee” del Green deal. Questo il pensiero di Legambiente sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) approvato dal Parlamento, e destinato alla commissione Ue.
“Sono diversi i miglioramenti apportati al Piano nazionale di ripresa e resilienza del nostro Paese elaborato dal governo Draghi – osserva il presidente di Legambiente Stefano Ciafani – un lavoro che però consideriamo solo all’inizio perché non è pienamente coerente con le politiche europee ispirate al Green Deal e alla transizione ecologica e non è adeguato alle sfide ambiziose che la salute del Pianeta ci impone”.
Il Piano presentato in Parlamento – viene spiegato – “manca ancora dell’allegato con le schede progettuali che restituirebbero più compiutamente la struttura effettiva e le finalità concrete dei poderosi investimenti previsti”. Tra le novità “positive lo sviluppo dell’agro-voltaico, la realizzazione di comunità energetiche nei piccoli Comuni, una spinta alla produzione di biometano, i progetti di riforestazione urbana, il finanziamento alla bonifica dei siti orfani”. Anche se – ribadisce – “alcuni significativi segnali di incoerenza rispetto agli indirizzi europei sono, purtroppo, presenti”.
Il Piano “non è, infatti, adeguato alla sfida lanciata con il recente accordo sulla legge sul clima varata dall’Europa. La lotta alla crisi climatica deve essere una priorità trasversale di intervento del Piano, come parità di genere, giovani e Sud, e invece su questo tema cruciale si utilizza un approccio timido e incomprensibile. Viene previsto un aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e clima con un taglio delle emissioni del 51% entro il 2030 rispetto al 1990 (più basso dell’obiettivo già inadeguato del 55% fissato in Europa) mentre il nostro Paese avrebbe tutte le carte in regola per arrivare ad una loro riduzione di almeno il 65%”.
Inoltre sarà “importante un’azione prioritaria per ripensare le città in una chiave sostenibile perché è qui che si concentrerà il cuore della sfida, dalla mobilità all’efficienza, che fino ad ora è mancata e su cui l’Italia avrebbe tutto l’interesse a puntare. La grande rivoluzione prefigurata dal pacchetto di direttive europee sull’economia circolare varato nel 2018, già praticata da alcune imprese e filiere territoriali, non decollerà senza investimenti adeguati, che ancora oggi non ci sono, per la ricerca sui nuovi materiali, l’infrastrutturazione del Paese con impianti industriali per il recupero della materia per i rifiuti di origine domestica e produttiva, la riconversione di cicli e siti produttivi verso la nuova frontiera della bioeconomia. Lo stesso si può dire anche della mancata coerenza con le politiche europee per la tutela della risorsa idrica, della biodiversità e per la sostenibilità del cibo e dell’agricoltura”.
Alcuni grandi punti saranno poi fondamentali. La riforma fiscale con l’auspicio che “possa intraprendere una volta per tutte la strada della riduzione graduale e inesorabile dei sussidi alle fonti fossili, il problema del potenziamento del sistema dei controlli ambientali pubblici per velocizzare le istruttorie tecniche di valutazione dei progetti e per ridurre la concorrenza sleale, la rapidità e l’efficacia degli interventi sui siti contaminati a partire da quelli di interesse nazionale e regionale, e la riforma da adottare, di cui non si fa menzione nel Piano, dei nuovi strumenti di partecipazione e monitoraggio civico per realizzare le opere pubbliche”.