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Quanto pesano i Bitcoin

L’economia della più celebre delle criptovalute, il Bitcoin, è l’emblema della potenza tecnologica del nuovo millennio, ma sfrutta processi del tutto novecenteschi. Si fonda sul mining, l’estrazione, e consuma enormi quantità di energia. Quali sono gli impatti sull’ambiente della non-moneta sponsorizzata da Elon Musk?

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di Matteo Grittani

Terza pubblicazione del focus: la corsa all’oro dei miners “resuscita” centrali a combustibili fossili in phase-out

Lo abbiamo capito, i Bitcoin (e in generale le criptovalute), seppur per loro stessa natura aleatori e inconcreti, esercitano sul sistema energetico e sull’ambiente impatti concretissimi. Nel primo articolo di questo focus sul peso reale dei Bitcoin sul sistema energetico e sull’ambiente, abbiamo cercato di spiegare a grandi linee che cosa sono e con quali processi vengono estratti dal mare magnum digitale. Con la seconda pubblicazione ci siamo concentrati poi sulle cifre, scoprendo che il solo meccanismo del mining della più importante delle criptovalute consuma più di quanto facciano oggi intere nazioni come Argentina o Svezia. Oggi, con il terzo episodio cercheremo di visualizzare e dare ulteriore concretezza ai suoi consumi e impatti ambientali, spingendoci ancor più in profondità, con esempi e realtà locali. Sono decine, infatti, i casi di grandi impianti energetici dismessi perché troppo inquinanti, che oggi vengono rilevati a prezzi stracciati da grandi player privati del mercato delle criptovalute. Motivo? Avere a disposizione quote considerevoli di energia a prezzi vantaggiosi e poterla impiegare per potenze di calcolo sempre maggiori nel processo di mining. 

Cina e Usa: i vecchi impianti a carbone e gas trovano nuova linfa

Facciamo un passo indietro. Nel 2020, la stragrande maggioranza della potenza di calcolo globale impiegata nell’enorme network dei Bitcoin era controllata dalla Cina. Per quale ragione? Motivi di mercato, nemmeno a dirlo: i miners erano attirati dall’elettricità a bassissimo prezzo generata da vecchi impianti idroelettrici e soprattutto dalle ben più inquinanti centrali a carbone cinesi. La Cina, come noto, è il Paese che ospita il maggior numero di impianti termoelettrici a carbone: ne possiede ben 1110, più del 50% della potenza totale installata al mondo. Per dare un’idea dell’enormità di questa cifra, il secondo Paese in questa sporca classifica è l’India, che ne possiede “solo” 285.

Secondo un’analisi pubblicata l’anno scorso su Nature Communication, l’energia consumata dalla blockchain del Bitcoin dalla sola Cina dovrebbe conoscere il suo picco entro il 2024 e “fermarsi” a 130 milioni di tonnellate di CO2 emesse e 296.59 TWh annui, cifra del tutto paragonabile ai consumi elettrici del nostro Paese. Ma da alcuni mesi, la superpotenza asiatica sta diminuendo i suoi interessi sulla criptovaluta, spinta da un lato dai rischi finanziari potenziali e dall’altro dall’obiettivo annunciato da Xi Jinping, di arrivare alla neutralità climatica entro il 2060. Molti miners cinesi stanno cercando di spostare il loro business in altri paesi, come il Kazakistan – che stando ai dati di IEA produce il 70% della sua elettricità con il carbone e il 20% con il gas – oppure gli stessi Stati Uniti.

Una tendenza sempre più frequente è che i miners cinesi inviino i loro supercomputer ai colleghi americani, che stanno investendo centinaia di milioni di dollari per convertire impianti elettrici abbandonati o dismessi in grandi hub in grado di mettere enormi potenze energetiche a disposizione dei processi di mining. Un esempio è l’impianto a gas di Dresden, piccola cittadina sul confine tra gli Stati di New York e Vermont. Dopo l’acquisto da parte di Greenidge Generation, multinazionale del mining, è diventata una delle più grandi miniere di Bitcoin degli Stati Uniti e le sue emissioni sono cresciute di quasi 10 volte tra 2019 e 2020. Greenidge ha risposto comprando crediti di carbonio e rendendo climaticamente neutro l’impianto: un trend comune a tutti i grandi gruppi delle fossili quello di rincorrere la neutralità climatica con logiche di mercato, ma rimane il fatto che, se non esistessero i Bitcoin, la centrale non produrrebbe nemmeno un picogrammo di CO2.

Energia a basso costo economico ed elevatissimo impatto ambientale

Un altro meccanismo rilevato con sempre più frequenza è quello dell’accaparramento dei cosiddetti peaker, impianti (quasi sempre molto inquinanti), che vengono di norma utilizzati in ore in cui la domanda di elettricità è particolarmente elevata e le centrali più efficienti e meno inquinanti che si occupano del base-load, il carico base, non riescono a soddisfarla tutta. I peaker sono tradizionalmente impianti a fonti fossili (in prevalenza gas naturale) che entrano in funzione per poche ore l’anno (dalle 1500 alle 250) e soprattutto hanno rendimenti termodinamici molto meno elevati degli impianti progettati per coprire il base-load. In altre parole, i peaker consumano molto più combustibile a parità di MWh di energia elettrica prodotta. Le big private del mining stanno acquistando e utilizzando peaker per estrarre criptovalute 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Ma non finisce qui. Impianti come quello di Greenidge consumano anche enormi quantità di acqua, necessaria per raffreddarlo. Parliamo di circa 530 milioni di litri di acqua dolce, prelevata ogni giorno dall’adiacente Seneca Lake, e scaricata a temperature molto più alte nello stesso bacino, con ovvie ripercussioni su biodiversità, flora e fauna in quella zona.

Un altro esempio eloquente è quello della centrale termoelettrica a carbone di Hardin, nel Montana, a pochi chilometri da dove si combatté la celebre battaglia di Little Bighorn. L’impianto era stato dichiarato in “phase-out” nel 2018 e mese dopo mese ha diminuito la sua attività arrivando a operare nel 2020 per 46 giorni su 365. Ma a fine 2020, è subentrata Marathon, tra le più importanti compagnie di mining al mondo, e l’ha rilevata, mettendo su in poco tempo un data center di 8 ettari che ospita 30 mila Antminer S19, ovvero supercomputer specifici per il mining. Nei soli primi 9 mesi del 2021, i forni sono stati riaccesi e in funzione per 236 giorni, con le emissioni che hanno raggiunto le 187 mila tonnellate di CO2 e un aumento di oltre il 5000% rispetto allo stesso periodo nel 2020. Esempi come quelli di Hardin e Dresden sono purtroppo sempre più frequenti. La tendenza, secondo gli esperti, è che, in Usa come in Europa, altri impianti “zombie” a combustibili fossili sulla via del phase-out verranno riconvertiti nei prossimi anni, con ripercussioni significative sulla sfida globale della decarbonizzazione.