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Quanto pesano i Bitcoin?

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di Matteo Grittani

(Rinnovabili.it) – Immaginate di “spegnere” per un anno la Svezia, o l’Argentina. E di convogliare tutta l’energia elettrica che serve per alimentare lampioni, condizionatori, smartphone, fino ai ventilatori e ai letti di terapia intensiva, in enormi capannoni che ospitano un numero spaventosamente elevato di supercomputer da milioni di operazioni al secondo. Per fare cosa? Estrarre. Non Oro, non marmo, non uranio. Estrarre una criptovaluta, un mezzo di scambio elettronico che esiste solo nel grande mare della rete e che ha senso esclusivamente nella nube elettronica dei bit. Vi state tuffando nel mondo un po’ indecifrabile dei Bitcoin, la più famosa criptovaluta inventata dalla geniale e multiforme mente umana. Un mondo tecnologico e finanziario dalle grandi opportunità, la cui esistenza stessa è in grado di minacciare significativamente l’ambiente e le sfide di decarbonizzazione che abbiamo davanti.

Con questo focus cercheremo di capire qualcosa in più sul Bitcoin e sui suoi enormi impatti sul sistema energetico, sociale ed ambientale. Ci chiederemo insomma: “quanto pesano i Bitcoin?”. Domanda quanto mai sfuggente, vista la natura astratta delle criptovalute e dell’economia su cui si basano. A ben vedere, proveremo a dimostrare con i numeri quanto il Bitcoin sia un ottimo esempio di come oggi la scala delle priorità umane non tenga quasi più conto delle conseguenze ambientali e sociali delle attività antropiche, ma si limiti a considerarne i supposti benefici in termini di creazione della ricchezza, ovviamente limitata a zone geografiche e sociali ben definite. Con questo primo episodio partiamo dalle basi, esaminando la storia e la natura del Bitcoin, non sempre chiarissima, per poi passare ad occuparci del peso reale dell’economia legata alle criptovalute. Un settore che consuma ogni anno 122 Terawattora (ogni TWh è un miliardo di kWh); per capirci, una quantità di energia paragonabile al consumo annuo di Paesi come Svezia (131 TWh) o Argentina (125 TWh). 

Cos’è il Bitcoin

Chi comprava un Bitcoin nell’Aprile del 2011, aveva un misero dollaro in più nel suo portafoglio. Chi lo volesse vendere oggi, ne intascherebbe almeno 37 mila. Un affarone sembrerebbe. Ma com’è possibile? Come funziona? Cos’è questo giochino serio, frutto della tecnologia e del “mood” del nuovo millennio? Facciamo un passo indietro: una criptovaluta non è una moneta e non è una banconota. Insomma, non è nulla di fisico o tangibile, non ne esistono riserve alla Fed, non è stampata nelle undici Officine carte valori della Banca Centrale Europea.

Le criptovalute fanno parte di quell’insieme di oggetti di cui è più semplice spiegare cosa non siano, piuttosto che cosa siano. Una cosa è certa: una criptovaluta crea un mercato fintanto che le persone sono disposte ad assegnargli un valore. Veniamo al Bitcoin, la più importante criptovaluta in circolazione, che da solo vale più della metà di tutte le monete virtuali esistenti oggi. Può essere usato per pagare di tutto, dalle automobili alle vacanze, dalle gioiellerie ai liberi professionisti, anche in Italia. Il mercato combinato globale di Bitcoin valeva circa mille miliardi di dollari a fine 2021: quanto il PIL dell’Indonesia. Nessuna banca o istituzione a normarlo, nessuna tassa o prelievo per ogni scambio, transazioni tra diversi paesi semplicissime, tutto tracciato, ma le persone che operano rimangono anonime. Tutto ciò è il suo bello e il suo brutto allo stesso tempo, che lo rende una valuta cosiddetta “decentralizzata” e “disintermediata”.

Dalla nascita del Bitcoin nel 2008 dalla mente del misterioso Satoshi Nakamoto – forse una singola persona, o più probabilmente un team di economisti, statistici e informatici – molti esperti hanno messo in guardia sul suo uso e abuso: evasori, terroristi o criminali in genere, potenzialmente, avrebbero potuto utilizzare questa criptovaluta per scopi illegali. Ma c’è di più: Nakamoto fissò un limite superiore di Bitcoin “creabili” a 21 milioni di unità e, se molto si è dibattuto sulle teorie matematiche che hanno portato a questa decisione, ancora oggi nessuno ne conosce davvero la ragione. Nel momento in cui scrivo, sono esattamente 18.966 i Bitcoin creati e in circolazione. Le stime più realistiche prevedono che il limite dei 21 milioni sarà toccato entro il 2140.

I Bitcoin si “estraggono”, come il carbone o l’uranio

Ma che significa “creare” Bitcoin? Ecco finalmente che scendono in campo la potenza di calcolo, l’energia e in ultima analisi l’ambiente. Si, perché a creare Bitcoin ci pensa un algoritmo creato dallo stesso Nakamoto, che estrae questa valuta e gestisce gli scambi e le transazioni. Ma se non c’è bisogno di intermediari fisici o istituzionali come banche e governi, chi controlla tutto? È la blockchain, in estrema sintesi un archivio digitale crittografato, a controllare e validare ogni transazione a partire dalla prima mai fatta, datata 03/01/2009.

La blockchain è completamente libera, l’algoritmo è di pubblico dominio e non brevettato, e soprattutto è condivisa da tutti i suoi utenti. Ciò significa che qualsiasi utilizzatore identificato per mezzo di un “address” (una stringa alfanumerica anonima), se vuole, può controllare una transazione. Per validare una transazione in Bitcoin è necessario che questa venga approvata dalla maggioranza della rete attraverso un complesso e, come vedremo, molto energivoro controllo dei registri della blockchain. Complesso ed energivoro perché richiede il processamento di una enorme mole di dati con grandi potenze di calcolo.

L’analogia tra la creazione di Bitcoin e il mondo dell’energia e dell’ambiente è concretissima, tanto che questo processo viene chiamato “mining”, estrazione. Il Bitcoin è un concetto senza dubbio attuale e proiettato nel futuro quindi, che sfrutta tecnologie che forse non sono nemmeno così chiare a chi le ha inventate, ma allo stesso tempo richiama immagini e processi novecenteschi, che vanno dallo sfruttamento di materie prime all’estrazione di minerali o combustibili fossili.

Sono proprio i “miners” infatti, i minatori, che volontariamente mettono a disposizione della blockchain la potenza dei loro calcolatori per verificare con appositi software grandi gruppi di transazioni chiamati appunto “blocchi”, da cui blockchain, catena di blocchi. I computer dei miners sono definiti “nodi” e consumano molta energia elettrica per supportare i calcoli. Per questo servizio, gli utenti vengono ricompensati per ogni blocco di transazione validato con nuovi Bitcoin. Ma attenzione: le ricompense variano, anche di molto, in funzione del tempo. Se l’estrazione di un blocco nel 2009 valeva 50 Bitcoin, nel 2012 25, nel 2016 12.5 e nel 2020 6.25.

Riassumendo: i miners lavorano per la rete, spendono soldi ed energia in grandi potenze di calcolo necessarie per sostenere il processo e vengono premiati con nuovi Bitcoin, ricompensa che si dimezza col tempo. Ci sono oggi circa un milione di miners attivi nella blockchain. Tutti quanti in cerca di potenze di calcolo sempre maggiori, con l’energia elettrica consumata che cresce esponenzialmente. “Le emissioni per il mining dei Bitcoin possono da sole spingere il global warming oltre i +2°C entro tre decenni”, titolava un articolo pubblicato su Nature quasi quattro anni fa. Vedremo nei prossimi articoli quali sono gli impatti sul sistema energetico e su quello ambientale dell’economia del Bitcoin e delle altre criptovalute. 

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