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Raddoppiano i processi per il cambiamento climatico nel mondo

Da 884 nel 2017 a oltre 2.100 nel 2022. Le cause intentate da cittadini e ong contro governi e multinazionali oil&gas sono sempre più numerosi, sempre più centrati sui diritti umani, e prendono piede anche nei paesi in via di sviluppo e nei piccoli stati insulari

Processi cambiamento climatico: raddoppiati in 5 anni
Foto di Mika Baumeister su Unsplash

Il rapporto UNEP sui contenziosi climatici

(Rinnovabili.it) – Sempre più legati ai diritti umani, sempre più diffusi in ogni angolo del pianeta. E sempre più vittoriosi in tribunale. Negli ultimi 5 anni, i processi per il cambiamento climatico sono raddoppiati e in crescita in tutto il mondo. Nel 2017 i contenziosi avviati da cittadini e ong contro governi e multinazionali oil&gas erano 884, l’anno scorso sono arrivati a quota 2.180. Scende la percentuale di cause avviate negli Stati Uniti e sale (al 17%) quella dei paesi in via di sviluppo e dei piccoli stati insulari, più vulnerabili al climate change.

È la fotografia dello stato dei processi per il cambiamento climatico scattata dall’Agenzia ONU per la protezione ambientale (UNEP) nel rapporto Global Climate Litigation Report. 2023 Status Review pubblicato oggi.

A cosa puntano i processi per il cambiamento climatico?

Man mano che cresce il numero di casi si diversificano anche le strategie legali adottate da chi promuove le cause. Il ventaglio mappato dall’UNEP è ampio e va dalla semplice richiesta allo stato di rispettare le leggi sul clima già in vigore a quella, più ambiziosa, di integrare considerazioni sul climate change nelle politiche energetiche, ambientali e sulla gestione delle risorse naturali, fino ai processi contro lo sfruttamento di nuove risorse fossili. Un’altra strategia consiste nel denunciare le leggi e le strategie di lungo periodo come insufficienti perché non allineate con ciò che serve per tenere il riscaldamento globale sotto gli 1,5 gradi, e chiedere che il tribunale obblighi lo stato ad adeguarsi.

Ci sono poi altre due strade sempre più battute. Una riguarda i diritti umani: si chiede alla giustizia di dare una definizione chiara di diritti umani e di come questi vengono impattati dal cambiamento climatico. O si usano le definizioni esistenti per denunciare l’inazione di stati o aziende: da un anno, l’assemblea generale dell’Onu ha riconosciuto il diritto umano a “vivere in un ambiente pulito, sano e sostenibile”. Ma ci si appella anche alle definizioni contenute nelle costituzioni nazionali. La seconda strada è chiedere compensazioni per i danni subiti a causa del climate change.

“Le politiche climatiche sono molto indietro rispetto a quanto necessario per mantenere le temperature globali al di sotto della soglia di 1,5°C, con eventi meteorologici estremi e caldo torrido che stanno già cuocendo il nostro pianeta”, ha affermato Inger Andersen, direttore esecutivo dell’UNEP. “Le persone si rivolgono sempre più ai tribunali per combattere la crisi climatica, ritenendo i governi e il settore privato responsabili e facendo del contenzioso un meccanismo chiave per garantire l’azione per il clima e promuovere la giustizia climatica”.

Vittorie esemplari

In questi 5 anni, alcuni processi per il cambiamento climatico hanno riscritto la storia della giustizia climatica, ogni volta innescando nuove ondate di cause. Per la prima volta, il Comitato Onu per i diritti umani ha stabilito che un paese – l’Australia – ha violato i suoi obblighi dettati dal diritto internazionale di diritti umani per la scarsa azione per il clima, in un processo intentato dagli abitanti (indigeni) delle isole di Torres Strait. La Corte suprema del Brasile ha stabilito che il Paris Agreement è un trattato sui diritti umani e quindi ha una valenza sovranazionale. E ancora: un tribunale olandese ha obbligato Shell a cambiare la sua politica industriale per tagliare le emissioni del 45% entro il 2030.