La versione attuale del Piano di ripresa continua a essere priva di una visione complessiva dei problemi, quindi di una strategia coerente; limite che rende difficile, spesso impossibile, identificare le priorità da attribuire ai singoli obiettivi o individuare le possibili sinergie.
di G.B. Zorzoli
(Rinnovabili.it) – In questi giorni, parlando del PNRR, è risuonato più volte il richiamo allo sforzo comune che nel dopoguerra ha consentito un rapido rilancio dello sviluppo economico e sociale.
Lo si ritrova il Primo Maggio nell’appello di Mattarella alla responsabilità delle istituzioni e all’unità di intenti, perché vadano a buon fine i giganteschi investimenti programmati per dare una ripartenza al paese. E pochi giorni prima, nella presentazione del PNRR alla Camera, Draghi cita De Gasperi: «L’opera di rinnovamento fallirà, se in tutte le categorie, in tutti i centri non sorgeranno degli uomini disinteressati, pronti a faticare e a sacrificarsi per il bene comune».
Il richiamo è appropriato, ma il contesto attuale ha poco in comune con quello dei primi decenni del dopoguerra.
Innanzi tutto, oggi sono mosche bianche i leader politici assimilabili a De Gasperi e Togliatti che, grazie anche al radicamento nel tessuto sociale dei loro partiti, riuscivano ad avanzare soluzioni concrete, di lunga durata, in grado di ricomporre le contraddizioni tra le aspirazioni dei loro elettori e i compromessi della Realpolitik.
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Allora le grandi imprese erano dotate di uffici studi, che fornivano una visione dei problemi non meramente settoriale e che hanno formato personaggi in grado di analizzarli non solo dal punto di vista economico. In quello dell’Eni hanno lavorato Giorgio Ruffolo, Paolo Sylos Labini, Sabino Cassese, Luigi Spaventa. All’Edison, anche Sergio Vaccà, che successivamente trasformò un normale istituto della Bocconi (lo IEFE) non solo nel centro di cultura energetica allora più prestigioso in Italia, ma anche nel luogo di discussione e confronto con i manager delle imprese pubbliche e private, attive nel settore, da cui più di una volta scaturirono indirizzi di politica industriale e di politica tout court.
Il deficit di cultura aziendale, provocato dalla miope chiusura degli uffici studi, si salda oggi col deficit di cultura e di visione politica dei partiti. Aggiungiamo al mazzo strutture ministeriali depauperate di risorse e con scarso ricambio generazionale, ed emerge con chiarezza il contesto culturale in cui è stato concepito il PNRR italiano. Quello inviato a Bruxelles è indubbiamente più adeguato della prima versione per le Camere del 12 gennaio, ma in meno di tre mesi neanche Draghi e i responsabili che ha scelto per la revisione del Piano potevano fare miracoli.
La versione attuale continua infatti a essere priva di una visione complessiva dei problemi, quindi di una strategia coerente; limite che rende difficile, spesso impossibile, identificare le priorità da attribuire ai singoli obiettivi o individuare le possibili sinergie.
Ad esempio, il Piano assegna una cifra consistente (15,37 miliardi) alla tutela del territorio e della risorsa idrica, dove uno degli obiettivi è la realizzazione di una maggiore resilienza delle infrastrutture idriche per adattarle ai cambiamenti climatici in atto. A tal fine vengono previsti investimenti in 75 progetti di manutenzione straordinaria, potenziamento e completamento delle infrastrutture di derivazione e stoccaggio.
Questi progetti rientrano nella Missione “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, che, come ha precisato Draghi nella replica alla Camera, per essere realizzata richiederà 70 GW aggiuntivi di rinnovabili elettriche, per la maggior parte fotovoltaiche.
Il PNIEC, basato su obiettivi meno ambiziosi, prevede una capacità aggiuntiva di 42 GW che, per compensare lo squilibrio della produzione fotovoltaica tra estate e inverno, richiede 6.000 MW di accumuli tra pompaggi ed elettrochimico a livello centralizzato. Per realizzare lo stesso obiettivo in un sistema elettrico dove dei 70 MW addizionali circa 50 saranno fotovoltaici, sarà necessario ricorrere anche agli stoccaggi idrici che verranno realizzati dai progetti previsti dal PNRR, dove una criticità come l’adeguatezza degli impianti di pompaggio è però ignorata.
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Di conseguenza, poiché nei progetti per aumentare la resilienza delle strutture idriche non viene segnalato di tenere presente nella localizzazione degli stoccaggi la possibilità di integrarli in un impianto di pompaggio, si rischierà di non utilizzare al meglio i relativi finanziamenti.
Le difficoltà che, in assenza di una visione a lungo termine delle problematiche sul tappeto, si incontrano nell’identificare le priorità da attribuire ai singoli obiettivi, hanno ad esempio determinato investimenti a pioggia per «promuovere lo sviluppo in Italia di supply chain competitive nelle aree a maggior crescita, che consentano di ridurre la dipendenza da importazioni di tecnologie ed anzi di farne motori di occupazione e crescita». Dei 2 miliardi di investimenti previsti, 1 è infatti destinato alle filiere industriali per rinnovabili e batterie, 0,45 a quella degli elettrolizzatori, 0,30 ai bus elettrici, 0,25 in supporto a start-up e venture capital attivi nella transizione ecologica.
Ancora più eclatanti sono i 3,19 miliardi allocati per promuovere la produzione, la distribuzione e gli usi finali dell’idrogeno, contro 0,68 miliardi per finanziare lo sviluppo di impianti a fonti rinnovabili innovativi. La cifra per l’idrogeno non è di per sé incongrua, lo diventa quando all’insieme delle rinnovabili innovative viene assegnato poco più di un quinto.
Per di più, il contesto politico attuale, con una maggioranza di governo poco propensa a fare sistema, non favorisce il varo di decisioni coerenti e tempestive.
Ne sono una riprova l’insufficiente definizione di strumenti decisivi per la realizzazione degli obiettivi del PNRR, come la sua governance, il mancato aggiornamento del PNIEC (essenziale per orientare gli investimenti del Piano) e le indicazioni relative alla semplificazione delle procedure autorizzative, quasi sempre generiche.
Nel documento presentato alle Camere si indica come “governance” una struttura di coordinamento centrale presso il MEF, che supervisionerà l’attuazione del Piano e sarà responsabile dell’invio delle richieste di pagamento alla Commissione europea. L’inadeguatezza di questa soluzione è stata confermata dallo stesso Draghi nella presentazione del PNRR alle Camere, quando ha annunciato che è prevista una cabina di regia presso la Presidenza del Consiglio, con il compito, tra l’altro, di interloquire con le amministrazioni responsabili in caso di riscontrate criticità nell’attuazione del Piano.
Sul nuovo PNIEC il documento si limita a scrivere che è in via di definizione, mentre per le semplificazioni l’unico annuncio concreto – la costituzione di una speciale VIA statale – aumenta le preoccupazioni per i ritardi che inevitabilmente provocherà il varo di una nuova struttura.
La mancanza nel PNRR di indicazioni concrete per la soluzione di questi tre nodi manda all’Europa un segnale poco rassicurante. Anche con la presidenza Draghi, per i contrasti interni alla maggioranza e per le ridotte risorse professionali disponibili all’interno delle amministrazioni pubbliche, l’Italia continua ad avere difficoltà nel realizzare tempestivamente e bene le riforme più urgenti. Difficoltà che vanno superate, perché in caso contrario i ritardi rispetto al cronoprogramma di obiettivi del Piano comporteranno il mancato pagamento dei corrispondenti stanziamenti.
Purtroppo, la fase attuativa iniziale del PNRR si svolgerà in un contesto politico dominato prima dalla elezione del nuovo Presidente della Repubblica e subito dopo da quella per il rinnovo del Parlamento, che dovrebbe svolgersi nella primavera del 2023 o potrebbe essere addirittura anticipata al 2022.
Due scadenze inevitabili, che difficilmente favoriranno l’unità di intenti intorno al PNRR, auspicata da Mattarella e da Draghi.