La guerra uccide persone, distrugge attività economiche, relega all’oblio storie e voci. Ma i suoi effetti impattano anche sull’ambiente e minacciano il Pianeta a 360 gradi, con modi e tempi che nemmeno immaginiamo. Secondo episodio del focus sull’impatto carbonico delle guerre (e di tutto ciò che ci gira intorno)
di Matteo Grittani
(Rinnovabili.it) – Di tutte le odiose e tremende conseguenze che hanno le guerre, forse quelle che gravano sul Pianeta Terra sono quelle meno avvertite dall’opinione pubblica. Il peso sull’ambiente delle armi, degli eserciti e dei combattimenti è molto più significativo di quanto si possa immaginare, tanto che le Nazioni Unite hanno stabilito una Giornata internazionale per la prevenzione dello sfruttamento dell’ambiente in situazioni di guerra e conflitto armato. che si celebra ogni anno il 6 novembre, dal 2001. Con questo focus a episodi cerchiamo di esaminare tutto ciò che la comunità scientifica ha accertato sul tema.
Con la prima puntata abbiamo capito che le guerre inquinano e distruggono l’ambiente molto prima che scoppino i colpi di mortaio sulla linea di combattimento. Il solo mantenimento del più grande esercito del mondo, quello degli Stati Uniti, consuma infatti oltre 270 mila barili di petrolio ogni anno. E nello stesso periodo emette circa 25 milioni di tonnellate di CO2, cifra paragonabile alle emissioni annue di un Paese di quasi 13 milioni di abitanti come la Tunisia. Con questo secondo appuntamento ci concentreremo invece sull’impronta carbonica degli armamenti e del loro continuo aggiornamento: un tema tristemente attuale.
Per essere efficaci, le armi devono essere aggiornate
È notizia di pochi giorni fa l’invio in supporto a Kiev dei carri armati Panzer Leopard di fabbricazione tedesca e degli Abrams statunitensi, decisione presa all’unisono dal cancelliere tedesco Olaf Scholz e dal presidente Usa Joe Biden. Ed è noto che le forniture di tank servirebbero come il pane all’esercito ucraino: secondo molti analisti, Kiev sta finendo le ultime munizioni presenti nei depositi di fabbricazione sovietica e presto non avrà più armi per difendersi dall’offensiva. Ma dove sono finite tutte le armi impiegate dai due eserciti in lotta? Dove si trovano oggi tutti i colpi esplosi? E dove finiranno i rottami dei nuovi tank, una volta attaccati? Sempre nello stesso posto: in ambiente.
Secondo le prime stime ufficiali elaborate a novembre dell’anno scorso dal Climate Focus, in sette mesi la guerra in Ucraina ha inquinato quanto l’Olanda in un anno: 100 milioni di tonnellate equivalenti di CO2 buttate in atmosfera. E a partire da questi giorni, fino alla probabile ripresa dei combattimenti su più larga scala con l’inizio della primavera, nuovi armamenti, nuove munizioni, nuovi tank verranno messi sul terreno da entrambe le parti. Il punto è proprio questo: le armi, per essere efficaci contro il nemico, devono essere sempre aggiornate alle nuove tecnologie. E quello dell’aggiornamento degli armamenti è un tema caldo non solo oggi, nel bel mezzo di una guerra che può diventare mondiale al primo soffio di vento. Un’ingente quantità di spesa pubblica viene infatti sempre e costantemente impiegata nel rinnovamento delle armi, con nuovi acquisti.
Prendiamo ad esempio il nostro Paese: il Bilancio del Ministero della Difesa per l’anno 2022 sfiora i 26 miliardi di euro. Verrà da chiedersi, a che servono tutte queste armi? Di sicuro non a combattere, visto che ad oggi l’Italia non risulta impegnata direttamente in nessuna grande guerra, fino a prova contraria. Il fatto è che il punto di vista è sempre quello economico: “non sarebbe meglio impiegare i miliardi che ci servono per comprare il tale aereo da guerra nella costruzione di ospedali e scuole?”. Quante volte l’abbiamo letto e sentito. Secondo una quota sempre maggiore di esperti, tuttavia, l’impatto forse più dirompente sulle nostre vite, conseguenza dell’aggiornamento costante degli eserciti e delle loro dotazioni, è in realtà proprio quello ambientale.
Dalle bombe nucleari alle armi convenzionali: l’impronta ecologica dell’artiglieria
Ma veniamo ai dati. Sono prima di tutto le oltre 13 mila testate nucleari immagazzinate nei depositi del Pianeta (pronte all’uso, ricordiamolo) a creare ovvi problemi lungo il loro ciclo vita. Per avere un’idea della dimensione del problema, l’esempio più chiaro è Hanford Site, nello Stato di Washington, Usa. Si tratta di uno dei principali siti di produzione di armi nucleari statunitensi attivo durante la Guerra Fredda e, secondo le stime del Dipartimento dell’Energia Usa, ha prodotto circa 200 mila m3 di scorie ad alta radioattività, 710 mila m3 di rifiuti radioattivi solidi e un totale di 520 km2 (cinquecento venti chilometri quadrati, riscrivo) di acque di falda contaminate. Ci sono poi le armi convenzionali. E se l’aggettivo “convenzionali” applicato a un concetto tanto tremendo come quello delle armi fa sempre rabbrividire, si può dire al contrario che siano del tutto eccezionali i loro danni sull’ambiente. In generale arrecano danno all’ambiente tutte quelle armi che per essere utilizzate implicano in qualche modo una combustione o una detonazione. Praticamente tutte, quindi. È forse utile, anche in questo caso, un esempio per dare l’idea della questione: il Radford Army Ammunition Plant (RFAAP) in Virginia, Usa, uno dei più grandi impianti di produzione di armi e munizioni sul suolo statunitense. Il RFAAP produce propellenti ed esplosivi in supporto ad artiglieria, difesa aerea, carri armati, missili, aerei da caccia e sistemi antiaerei navali. Quasi ogni giorno, i materiali residui delle lavorazioni, dai proiettili usati ai prodotti chimici base per fabbricare bombe, vengono accatastati in enormi pile lungo il New River, fiume che scorre nelle adiacenti contee di Pulaski e Montgomery. Le pile vengono quindi cosparse di benzina e successivamente bruciate. Un grande falò a cielo aperto visibile da alcuni chilometri di distanza, che numerose inchieste giornalistiche hanno denunciato. I prodotti della combustione creano un aerosol denso di Piombo, Mercurio, Cromo e composti come nitroglicerina e perclorati, tutti note sostanze pericolose o cancerogene. Nella vicina scuola elementare di Belview i bambini respirano quella che vari studi hanno identificato come “un’aria tra le più inquinate del Paese” . Nelle tre contee confinanti con l’area dell’impianto l’incidenza dei disturbi alla tiroide (compreso il cancro) è tra le più elevate degli Stati Uniti. Il caso di Radford è emblematico perché, nonostante il Congresso americano abbia vietato alla fine degli anni ’90 (e ribadito con una Legge ulteriore nel 2017) i cosiddetti open burns, gli incendi aperti, controllati, sono ancora oggi circa 200 siti che usano questo metodo per liberarsi di armi non più al passo coi tempi o munizioni inutilizzate o esaurite. Risultato? Oltre 16 milioni di ettari di terreno contaminato dalla fine della Prima guerra mondiale ad oggi, un’area quasi pari a quella dell’intero Stato della Florida, secondo il Dipartimento dell’Ambiente e dell’Energia. Cifre analoghe nel concetto, anche se non comparabili nelle dimensioni si possono identificare anche nel Vecchio continente.
Ci sono i fatti, insomma, a parlarci di quanto l’impatto ambientale di una guerra cominci molto prima di quando non scoppi, si autoalimenti con l’aggiornamento degli armamenti e degli eserciti, e naturalmente raggiunga i livelli più elevati durante le grandi guerre, che devastano vite e ambiente. Danni a cui ha contribuito prima di tutto una lunga storia di controlli e attività regolatoria debole, per usare un eufemismo, che hanno proiettato eredità militari e ambientali talvolta vecchie di mezzo secolo o più, sulle spalle delle nuove generazioni e dei loro figli, con impatti enormi e largamente sottostimati in termini di salute pubblica e costi economici per rimediarvi.