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COP28: perché il Patto di Dubai non piace alla società civile

Patto di Dubai: le reazioni all’accordo raggiunto alla COP28
crediti: UNclimatechange via Flickr CC BY-NC-SA 2.0 DEED

Il 13 dicembre, 200 stati alla COP28 hanno approvato il Patto di Dubai

(Rinnovabili.it) – Con tutti i riflettori puntati sul dossier del phase out delle fossili, per la presidenza emiratina di turno della COP28 di Dubai è facile presentare l’accordo raggiunto stamattina al vertice sul clima come un risultato “storico”. Quello che è già stato ribattezzato “UAE consensus”, però, dovrebbe essere valutato sulla base di quanti progressi sono stati fatti su tutti i dossier aperti, non solo su quello più appariscente, per quanto fondamentale. Il motivo è semplice: il Patto di Dubai ha deciso la “transizione via dai combustibili fossili”, ma per renderla concreta servono flussi finanziari adeguati, obiettivi e parametri ambiziosi sul versante dell’adattamento, misure di mitigazione chiare, un percorso che renda questa transizione realmente giusta ed equa per tutti.

Finisce il vertice sul clima COP28: decisa la “transizione via dai combustibili fossili”

I giudizi della società civile sul Patto di Dubai

Tutti aspetti che sono al centro delle prime reazioni a caldo della società civile. Per Climate Action Network (CAN), la COP28 ha lanciato un “segnale importante” sulla fine dei combustibili fossili, ma lascia “più domande che risposte” su come garantire “una transizione giusta e finanziata, basata sulla scienza e sull’equità”. Mentre Nikki Reisch di CIEL sintetizza così, amaramente, l’esito della conferenza: “I paesi alla COP28 erano davanti alla scelta tra i combustibili fossili e la vita. E i grandi inquinatori hanno scelto le fossili”. Troppe le scappatoie e salvagente che impacchettano la transizione via dalle fossili, nel suo giudizio. “I punti deboli di questo testo equivalgono ancora a una condanna a morte per molti in tutto il mondo”, rimarca Global Justice Now.

Finanziare la transizione via dalle fossili

Per molti, il versante della finanza per contrastare la crisi climatica e per l’adattamento è uno dei punti più deboli. Dal Patto di Dubai mancano “solide garanzie” ai paesi in via di sviluppo per un “adeguato sostegno finanziario nella loro transizione urgente ed equa verso le energie rinnovabili”, punta il dito Harjeet Singh di CAN: “Sebbene la COP28 abbia riconosciuto l’immenso deficit finanziario nella lotta agli impatti climatici, i risultati finali purtroppo non riescono a costringere le nazioni ricche ad adempiere alle proprie responsabilità finanziarie – obblighi che ammontano a centinaia di miliardi, che rimangono inadempiuti”.

Pochi i passi avanti fatti a Dubai sul New Collective Quantified Goal, il nuovo obiettivo globale sulla finanza per il clima che sostituirà il target di 100 miliardi di dollari l’anno fino al 2025. “Alla COP29 di Baku tutti gli occhi saranno puntati sui negoziati per il nuovo obiettivo collettivo quantificato sulla finanza”, sottolinea Teresa Anderson di ActionAid International. In Azerbaijan, il prossimo anno, mobilitare la giusta quota di finanziamenti sarà “un test cruciale” per il Patto di Dubai, aggiunge Ani Dasgupta del World Resource Institute, che quantifica i flussi necessari ai paesi in via di sviluppo in 4.300 mld $ l’anno entro il 2030.

L’unico progresso tangibile raggiunto dal Patto di Dubai, sul dossier della finanza climatica, è l’ok al Fondo Perdite e Danni, arrivato – a sorpresa – durante la plenaria di apertura del vertice all’inizio di dicembre. Anche se il compromesso raggiunto è provvisorio e andrà rinegoziato già nel 2026.

False soluzioni

L’intesa siglata dalla COP28 di Dubai introduce anche delle novità nel processo delle COP. Una è la menzione, esplicita, del nucleare tra le opzioni preferenziali (low-carbon) per accelerare la transizione, allo stesso piano delle energie rinnovabili. L’altra è ben più densa di conseguenze per la velocità e la traiettoria che prenderà la transizione energetica: il compromesso sdogana del tutto il ricorso alle tecnologie di rimozione della CO2 e di cattura, stoccaggio e uso dell’anidride carbonica.

Per Manuel Pulgar-Vidal del WWF – già presidente della COP20 – si tratta di “distrazioni pericolose”. La stessa espressione usata anche da Laura Young, Tearfund Ambassador: “Il risultato è un miscuglio di transizione dai combustibili fossili, che apre la porta a pericolose distrazioni e all’indebolimento degli impegni passati”. E ripetuta da Lavetanalagi Seru della sezione di CAN – Isole del Pacifico: “Questo risultato continua a consentire pericolose distrazioni e scappatoie, come la cattura del carbonio, le tecnologie nucleari e di rimozione, e l’indebolimento del linguaggio su genere, diritti umani e diritti degli indigeni, il che è profondamente deludente”.

Oltre a CDR e CCS, il Patto di Dubai assomiglia a un cavallo di Troia – l’ennesimo – con cui si è data la benedizione finale al gas fossile: “Ci sono una serie di accenni molto preoccupanti: gas come energia di transizione, cattura e stoccaggio del carbonio e energia nucleare. La decisione non mantiene le sue ambiziose promesse”, nota la diramazione francese di CAN per voce di Gaia Fevre.

Pochi progressi, nessun progresso

Altre associazioni sottolineano come affrontare la crisi climatica, intrecciata a quella della biodiversità, a quella sanitaria e alla possibilità di uno sviluppo equo e giusto per tutti, richieda passi avanti in tutti gli ambiti congiuntamente. Per Jojo Mehta della campagna Stop Ecocide International “non possiamo saltare dalla padella alla brace. Abbiamo bisogno di un approccio per affrontare la difficile realtà che tutti affrontiamo che vada oltre la semplice attenzione alle emissioni di carbonio o il lasciare che il mercato risponda alla crisi climatica frenato solo da quadri normativi deboli – spesso si trovano nei luoghi dove la biodiversità è maggiore”. Mentre Oxfam giudica la COP28 “doppiamente deludente” per le promesse mancate sulla finanza e perché “i paesi ricchi hanno nuovamente rinnegato i loro obblighi di aiutare le persone colpite dai peggiori impatti del collasso climatico”, accusa Nafkote Dabi. “I paesi in via di sviluppo e le comunità più povere si trovano ad affrontare un debito maggiore, un peggioramento della disuguaglianza, con meno aiuti e più pericoli, fame e privazioni”.

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