di Vittorio Cogliati Dezza
(Rinnovabili.it) – Con il Next Generation EU (NGEU) l’Unione Europea si sta giocando molto del suo futuro nel mondo. È una partita doppia: trasformarsi in un sistema coeso, socialmente ed economicamente, nella cornice del green deal e della giusta transizione ecologica, ed insieme scatenare una virtuosa competizione interna su quale Stato saprà meglio interpretare il nuovo ruolo e mettere a frutto le opportunità offerte dal NGEU, nella dialettica tra le diversità nazionali e il valore di fare sistema.
L’obiettivo è trascinare i singoli paesi verso un futuro di decarbonizzazione, giustizia sociale e innovazione tecnologica. Sarà davvero così? È una strada appena iniziata e non è detto che tutti i passi saranno coerenti con la scelta obbligata a cui la pandemia ha costretto l’Unione, che, una volta tanto, si è mossa con tempestività e prima degli altri.
I capisaldi sono noti. Tre pilastri vincolanti: rivoluzione verde, innovazione digitale, coesione e inclusione sociale. Un piano di riforme indispensabili per costruire una comunità europea di pratiche, e non solo di intenti. Un sistema meticoloso di “lettura” dei possibili danni ambientali (v. orientamenti tecnici sul principio “do no significant harm”) e del contributo alla lotta alla crisi climatica e all’innovazione digitale.
Più facile a dirsi che a farsi. Ovviamente. Né, ad oggi, possiamo dire se l’Europa sarà in grado di governare con determinazione e coerenza il processo, senza mediazioni al ribasso. Se si confrontano i Piani delle quattro nazioni più popolose, Germania, Francia, Italia e Spagna (255 milioni di abitanti, sui 446 dell’Unione) si capisce quanto pesino i divari di partenza e quali le difficoltà che incontreremo.
L’Italia ha scelto di utilizzare sia i fondi in sovvenzione che quelli a prestito, previsti dal Recovery Resilience Facility (RRF), al contrario degli altri tre Paesi, che utilizzeranno solo le risorse in sovvenzione. Una prima differenza sta perciò nei volumi di risorse da utilizzare (per l’Italia 191,50 miliardi, solo per il capitolo RRF – 68,9 di sovvenzioni e 122,6 di prestiti –, contro i 69,5 della Spagna, che si riserva la possibilità di usare prestiti a partire dal 2023, i 41 della Francia e i 27,9 della Germania). Un dato che giustifica l’attenzione spasmodica che si è avuta e si ha in Italia intorno al PNRR, tanto da provocare una crisi di governo. Quello che da noi è la fetta principale del “tesoro” ed è il volano della ripresa che trascina le altre risorse (sia nazionali, come il Fondo Complementare, che europee), per gli altri paesi rappresenta solo una quota, aggiuntiva a risorse pubbliche già in campo, utile per arrivare agli obiettivi prefissati dalla UE. La Francia, ad esempio, ha deciso di investire nel Piano più del doppio delle risorse del RRF.
Le differenze non si fermano qui. Diverso il percorso istituzionale, più strutturato quello francese e spagnolo, la Germania ha bypassato il voto parlamentare, mentre in Italia il Parlamento si è trovato a votare in due giorni un Piano diverso da quello su cui aveva lavorato per due mesi. Molto diverso anche il “dialogo sociale” che ha accompagnato la formulazione dei Piani.
Ma una differenza radicale è nel livello di trasparenza. Il Piano tedesco e francese rispondono in pieno alle indicazioni europee e per ogni asse progettuale indicano milestone, target e risposte al principio “Do no significant harm”. Inoltre dai Piani di Francia (50% degli investimenti RRF) e Germania (40%) è possibile sapere per ogni componente la quota di contributo per il contrasto alla crisi climatica; la Spagna indica le fasce di riferimento (sopra o sotto il 40% o il 10%), l’Italia si limita ad un’indicazione generale sintetica (40%), senza ulteriori specificazioni. Bisogna accedere ad una versione successiva, girata dopo il 30 aprile ma ancora non pubblicata sul sito del Governo, con allegati di 2.400 pagine circa, per ricavare i dettagli, anche in merito al principio del “Do no significant harm”, ai milestone e ai target.
Se entriamo nel merito delle varie misure progettuali emergono le scelte su cui si vuole impostare lo sviluppo del Paese.
Per la Germania la quota percentuale più consistente va alla digitalizzazione (21% del RRF, con 5,9 miliardi, di cui 1,4 miliardi, pari al 5%, per l’educazione alla digitalizzazione) e alla mobilità elettrica (5,41 miliardi, pari al 19.4%, con 2,5 miliardi – 8.9% – per il sostegno all’acquisto di veicoli elettrici, ed un miliardo circa – 3.9% – per autobus ad alimentazione alternativa), seguite dalla sanità (16.3%), poi decarbonizzazione e investimenti in idrogeno (3,26 miliardi, pari al 11.7%) e riqualificazione edilizia (2,57 miliardi, 9.2%), con una corsia preferenziale per la modernizzazione della PA (12.4%). Significativo anche l’investimento di 1,25 miliardi (4.5%) per la partecipazione sociale.
La Francia dichiara esplicitamente che vuole diventare la prima grande economia decarbonizzata europea e lo fa su quattro priorità: trasporti, rinnovamento energetico degli edifici, energia e transizione agricola. Per realizzare questo obiettivo dedica la quota più rilevante di risorse europee al lavoro, avvio e formazione, con il 18% delle risorse (7,5 miliardi), e ad infrastrutture e mobilità sostenibili con il 17% (7 miliardi), di cui il 10.7% (4,39 miliardi) va alle ferrovie (trasporto merci, regionali, rete), mentre alla mobilità quotidiana ed elettrica va il 5.45% del RRF. A seguire salute (6 miliardi – 14.6%) e riqualificazione energetica degli edifici (6,05 miliardi – 14.6%), con 3,8 miliardi per l’edilizia pubblica, 1,4 per l’edilizia privata e 500 milioni per l’edilizia popolare. Importante anche l’investimento in idrogeno verde con 1,92 miliardi (4.7%). Altre risorse sono destinate all’agricoltura e alle foreste, alle biotecnologie, all’economia circolare, alla decarbonizzazione del sistema industriale, alla città di domani e alle innovazioni per la transizione ecologica.
Per la Spagna la componente più ricca è quella degli investimenti nella modernizzazione e digitalizzazione del tessuto industriale con poco più di 16 miliardi (16,08 – 23% del RRF), seguita con 14,41 miliardi (21%) da “sviluppo urbano e rurale” e da “infrastrutture ed ecosistemi resilienti” con 10,4 miliardi (15%). Significativo l’investimento in educazione e apprendimento permanente con 7,32 miliardi (11%). Nel campo della transizione ecologica le voci più significative riguardano: la mobilità in città con 6,53 miliardi (9.4%), per dare impulso alla decarbonizzazione della mobilità urbana e migliorare la qualità dell’aria e della vita nelle città, la rigenerazione urbana con 6,82 miliardi (9.8%) e la mobilità interurbana con 6,66 miliardi (9.6%). Minori gli investimenti in energie rinnovabili (3,16 miliardi – 4.6%), nelle reti (1,36 miliardi – 2%) e in idrogeno verde (1,55 miliardi – 2.2%). Infine una misura riguarda il sostegno alla “transizione giusta”, unico Piano che cita esplicitamente questa dicitura, con un investimento di 300 milioni.
Per l’Italia, in cima agli investimenti la Rivoluzione verde con il 31% delle risorse del RRF (59,47 miliardi) e la Digitalizzazione con il 21% (40,32 miliardi). Ultimo in classifica l’investimento in sanità con l’8.16% (15,63 miliardi). L’ampiezza delle risorse a cui si è deciso di accedere permette di essere presente un po’ in tutti i campi di intervento degli altri paesi, privilegiate le misure per la riqualificazione energetica degli edifici (10% del RRF) e Alta Velocità (7.7%). Quello che manca, stante la scarsa trasparenza già detta, sono i risultati attesi e la scelta di un chiaro indirizzo di sviluppo. Se prendiamo ad esempio la misura sull’idrogeno (3,64 miliardi – 1.9%), oltre all’eccessivo peso affidato al suo utilizzo nei trasporti, considerate le tecnologie oggi in campo, rimane ambigua la scelta a favore dell’idrogeno verde (che è invece netta negli altri Piani).
Nel documento con gli allegati inviato a Bruxelles si dice chiaramente: “Il percorso è la graduale sostituzione del carbone con gas naturale, che a sua volta sarà sostituito, ove disponibile, da idrogeno a basse emissioni di carbonio, e progressivamente con quello verde, in prospettiva prodotto da fonti energetiche rinnovabili”, insomma nessuna certezza sui tempi: “il gas naturale sarà progressivamente sostituito da idrogeno, dove/quando possibile, e successivamente verde, fino alla completa sostituzione”.
Ma soprattutto c’è qualcosa di imperscrutabile nel PNRR italiano, nascosto in quelle 70 Riforme che dovrebbero accompagnare gli investimenti, che probabilmente, come sta già dimostrando il dibattito di questi giorni, saranno il primo grande ostacolo intorno a cui capire “come andrà a finire”. L’assenza di “dialogo sociale” che ha caratterizzato la costruzione del Piano, e l’assoluta mancanza di impegni per il coinvolgimento della società civile nella sua implementazione non possono che proiettare nuove preoccupazioni sulla capacità reale di imboccare la giusta transizione che l’Europa ci chiede.