Il ricorso massiccio al telelavoro durante la pandemia da Covid-19, ha fatto emergere la consapevolezza che questo strumento potrebbe comportare anche importanti conseguenze da un punto di vista energetico-ambientale. Un nuovo studio ha analizzato i potenziali pro e contro del lavoro a distanza
di C. Fabiani, S. Longo, A.L. Pisello, M. Cellura
Dall’inizio dell’emergenza COVID-19 le autorità nazionali e internazionali si sono viste costrette a imporre prescrizioni di distanziamento sociale al fine di contenere la diffusione del virus. Queste disposizioni hanno avuto un largo impatto sulla nostra società e sul mondo del lavoro, che ha dovuto fare un ricorso massiccio al cosiddetto smart-working o lavoro a distanza, per affrontare rapidamente una situazione senza precedenti. Eppure, l’idea di lavorare al di fuori degli uffici, sfruttando la disponibilità di mezzi di comunicazione on-line è stata proposta molto prima dell’emergenza sanitaria.
In generale, fin dai primi utilizzi, il telelavoro è apparso come uno strumento controverso che portava con sé notevoli potenzialità economiche e sociali e, allo stesso tempo, svelava importanti problematiche relazionali e psicologiche. Nel corso del tempo diversi studi scientifici hanno cercato di analizzare pro e contro di questo strumento, arrivando a conclusioni differenti. Alcuni di essi hanno sottolineato come il lavoro a distanza non possa prescindere da un’ottima organizzazione delle responsabilità e delle attività individuali dei soggetti interessati, che a sua volta imporrebbe l’utilizzo di modelli di lavoro altamente strutturati e flessibili, capaci di migliorare la qualità delle attività svolte. Questo ramo di ricerca, generalmente, concorda sul fatto che i lavoratori che fanno uso del cosiddetto smart-working finiscano per essere meno esposti al pericoloso contrasto tra lavoro e vita privata, beneficiando della possibilità di lavorare nel contesto familiare, potenzialmente confortevole, in una sensazione di maggiore equilibrio tra lavoro e vita privata.
In senso diametralmente opposto, il telelavoro è stato utilizzato e percepito anche come una pratica di ottimizzazione volta a ridurre i costi manageriali e produrre un controllo tecnocratico più rigoroso sui lavoratori. Questa interpretazione alternativa del lavoro a distanza avrebbe gravi ripercussioni sulle attività quotidiane dei dipendenti, che spesso finirebbero per percepire un’invasione delle preoccupazioni legate al lavoro nella loro sfera personale, aggravando notevolmente i conflitti tra lavoro e vita privata. Recenti studi hanno, inoltre, dimostrato che laddove non controllati, alcuni effetti collaterali del telelavoro quali l’alienazione del soggetto e il calo dell’impegno lavorativo, potrebbero seriamente ridurne i benefici, in particolare, nel caso in cui esso venisse utilizzato in risposta a eventi imprevisti come i disastri naturali.
D’altra parte, il ricorso massiccio al telelavoro durante la pandemia da Covid-19, ha fatto emergere la consapevolezza che questo strumento potrebbe comportare anche importanti conseguenze da un punto di vista energetico-ambientale. Data la notevole complessità del tema, appare evidente che un’adeguata valutazione della sostenibilità a breve e lungo termine del lavoro a distanza non può prescindere da considerazioni che tengano conto delle conseguenze legate alla sfera psicologica e sociale di accettazione da parte degli utenti oltre che a quella prettamente legata alla sostenibilità ambientale dello stesso. Riuscire a tracciare un quadro complessivo delle implicazioni derivanti da questo strumento consentirebbe di sfruttarne a pieno tutte le potenzialità, limitandone al contempo gli effetti negativi ed offrendo un riferimento importante in termini di pianificazione del suo utilizzo come mezzo da usare quotidianamente per ridurre il carico ambientale delle attività umane, ma anche come strategia di resilienza contro futuri eventi disastrosi.
Proprio a questo scopo è stato redatto un questionario da compilare on-line durante il primo lockdown stabilito dal governo italiano per contrastare l’epidemia di COVID-19 tra aprile e maggio 2020, i cui risultati sono stati pubblicati nella rivista internazionale Sustainable Production and Consumption da parte degli stessi autori. Tale questionario è stato sottoposto a più di 700 soggetti e le oltre 500 risposte valide ottenute sono state analizzate statisticamente per valutare l’accettazione del lavoro a distanza rispetto a diverse variabili indipendenti tra cui informazioni personali (età, sesso, livello di istruzione, composizione familiare del reddito, ecc.), informazioni relative al luogo di lavoro, la posizione e le caratteristiche delle abitazioni degli intervistati, alle loro abitudini personali e così via.
Prima di entrare nell’analisi statistica, è stata eseguita una valutazione dettagliata della composizione del campione, per verificarne la rappresentatività. Successivamente, tre diversi modelli statistici (MLR: regressione logistica multinomiale, OLR: regressione logistica ordinale e MLG: modelli lineari generalizzati che utilizzano il modello di regressione ordinale e il test del rapporto di verosimiglianza) sono stati utilizzati per valutare l’effetto delle variabili considerate. Questi modelli sono stati scelti perché pur essendo piuttosto semplici, consentono di controllare l’effetto di fattori confondenti come l’accesso a mezzi di comunicazione online. Proprio a questo scopo la regressione logistica ha visto l’uso di variabili quali il numero totale di chiamate e videochiamate effettuate nel corso della settimana, o la disponibilità di una connessione web (wi-fi/LAN) in casa. Da ultimo, il campione è stato raggruppato in un numero finito di segmenti con caratteristiche simili ed è stato definito l’impatto ambientale della condizione lavorativa attuale (durante l’isolamento) per poi confrontarlo con quello delle condizioni di lavoro comuni per ciascun cluster.
La valutazione dell’impatto ambientale dello smart-working è stata effettuata tenendo in considerazione le principali emissioni prodotte da ciascun partecipante per i trasporti, il consumo di energia sul posto di lavoro, il consumo di energia in casa, l’uso delle attrezzature che per il loro funzionamento abbiano necessità di utilizzare fonti energetiche di vario tipo, gli hobby personali e lo sport.
L’analisi dei risultati ha mostrato che i principali fattori che influenzano l’accettazione del lavoro a distanza da parte degli utenti sono la distanza tra il luogo di lavoro e l’abitazione, i turni lavorativi da coprire in condizione di lavoro a distanza e la presenza di spazi adibiti a studio o stanze che potessero essere dedicate al lavoro all’interno delle abitazioni. Elevata significatività statistica contraddistingue anche variabili economico-sociali come il reddito medio del soggetto, la superficie totale della casa, l’aumento complessivo del numero di chiamate effettuate e del numero di libri letti a settimana, oltre che alcuni parametri rappresentativi del comfort ambientale. Più nel dettaglio, si è concluso che il telelavoro ha maggiori probabilità di essere accettato da persone che lavorano a grande distanza da casa (maggiore di 10 km) ed è solitamente associato a un miglioramento dello stile di vita di questi dipendenti, essendo spesso associato ad un aumento del tempo dedicato a diversi tipi di attività ricreative quali la lettura o la pratica sportiva. Un feedback positivo sul lavoro a distanza risulta, inoltre, spesso associato a un ambiente abitato confortevole sia in termini di spazi da dedicare al lavoro che di condizioni di comfort percepite.
Dal punto di vista dell’impatto ambientale, la variabile più significativa risulta il calo del numero di chilometri percorsi, che produce una generale riduzione del potenziale di riscaldamento globale durante il lockdown. Più nel dettaglio, i soggetti associati a distanze casa-lavoro maggiori di 80 km, vedono precipitare del 54% il loro impatto ambientale, seguiti da quelli che abitano tra i 40 e gli 80 km dall’ufficio (-47.8%). Riduzioni, seppure più modeste, si registrano anche nel caso di soggetti che abitano tra i 10 e i 40 km dal luogo di lavoro, mentre l’impatto ambientale finale aumenta di circa il 3,5% nel caso in cui tale distanza si riduca al di sotto dei 10 km. L’aumento delle emissioni associate a questo ultimo gruppo di persone è dovuto principalmente all’incremento del fabbisogno energetico di riscaldamento delle abitazioni, che, raggiungendo un valore di circa 100,8 kgCO2eq/mese*persona, registra una crescita del 23,3% nel periodo del lockdown [Sustainable production and consumption in remote working conditions due to COVID-19 lockdown in Italy: An environmental and user acceptance investigation].
Si capisce, quindi, che una corretta indagine e programmazione dei fattori di cui sopra potrebbe consentire di migliorare significativamente la sostenibilità a lungo termine di questa pratica di gestione del lavoro. Contestualmente a questi benefici però si osservano ripercussioni negative in termini di aumento del fabbisogno energetico di residenze (difficili da valutare data l’ampia dispersione delle caratteristiche termofisiche e impiantistiche del panorama edilizio italiano residenziale) che fino a poco tempo prima erano climatizzate solo alcune ore nell’arco della giornata. Nel complesso, il lavoro a distanza potrebbe rappresentare una soluzione da promuovere per diffondere un nuovo approccio allo sviluppo sostenibile con il duplice obiettivo di ridurre l’impatto ambientale di aziende o fornitori di servizi con un gran numero di impiegati e migliorare lo stile di vita dei dipendenti, qualora venissero quantificati adeguatamente i costi energetici a carico del lavoratore e sviluppate strategie di efficientamento energetico degli spazi residenziali nell’ottica della necessità di flessibilità casa-lavoro.
di Fabiani Claudia (Università di Perugia), Longo Sonia (Università di Palermo), Pisello Anna Laura (Università di Perugia), Cellura Maurizio (Università di Palermo)