L’International Seabed Authority pronta a emanare il regolamento sulle miniere sottomarine
(Rinnovabili.it) – Finora è stato il far west: nessuna regola, poche certezze di riuscita. Lo sfruttamento dei fondali marini è il nuovo Eldorado, o almeno così lo dipingono molti studi. Si moltiplicano le aziende che mettono a punto dei prototipi di macchinari in grado di rendere commercialmente conveniente il deep sea mining. E Stati e compagnie stanno accelerando la corsa ai permessi. Adesso l’Onu promette di fare ordine sulle miniere sottomarine e produrre un regolamento globale che disciplini l’estrazione di materiali pregiati dal fondo degli oceani.
Nauru, Kiribati e Tonga vogliono le miniere sottomarine
Per le Nazioni Unite la regolamentazione delle miniere sottomarine sta per diventare una priorità e nel giro di massimo 2 anni sarà pronto e approvato un testo. Lo preparerà l’International Seabed Authority (ISA), l’organo dell’Onu che si occupa dei fondali marini e oceanici e, quindi, anche dello sfruttamento delle loro risorse.
Dietro all’accelerazione c’è Nauru, microscopico Stato insulare del Pacifico che solitamente arriva alle cronache per la minaccia del cambiamento climatico, visto che rischia di finire sommerso a causa dell’aumento del livello del mare. Ma adesso la piccola repubblica micronesiana spera di arricchirsi grazie alle miniere sottomarine. Da tempo va a braccetto con una delle società più interessate allo sfruttamento tramite deep sea mining, The Metals Company, già DeepGreen. La stessa compagnia sponsorizzata anche da Kiribati e Tonga, che hanno mire simili.
Cos’è il deep sea mining?
Il deep sea mining è una pratica ancora agli albori e molto controversa per i suoi possibili impatti sull’ambiente. Consiste nell’estrazione di metalli dai fondali marini, a profondità anche di 4-5mila metri. Prevede di raschiare il fondale e di risucchiare i materiali smossi attraverso delle tubature che li portano direttamente sulle navi in superficie. Il fondo degli oceani, infatti, racchiude vere e proprie miniere a mare aperto. Spesso sotto forme non convenzionali come i noduli polimetallici, i solfuri polimetallici (grumi di oro, zinco, piombo, rame e terre rare) e le croste di cobalto.
Sugli impatti ambientali delle miniere sottomarine non c’è accordo. L’Isa, l’agenzia Onu, si basa solo sui dati forniti dalle compagnie interessate allo sfruttamento di giacimenti e depositi sottomarini. E non ha mai accettato di renderli pubblici e permettere una verifica indipendente. Però ha già concesso una trentina di autorizzazioni. Le preoccupazioni maggiori riguardano l’inquinamento acustico, luminoso, le vibrazioni e l’innalzamento di nubi di sedimenti causate dalle operazioni di raschiamento dei fondali. Alcuni studi ventilano la possibilità che tutto ciò possa mettere a repentaglio la tenuta degli ecosistemi e danneggiare fortemente la fauna marina.
Il deep sea mining non è una vicenda che riguarda soltanto il Pacifico. Anche in Europa qualcosa si muove, e precisamente in Norvegia. Il paese scandinavo vuole sfruttare le risorse dei suoi fondali già dal 2024 per alimentare la transizione ecologica: in particolare punta a litio e rame per accelerare la produzione di auto elettriche.