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Una moratoria sulle miniere sottomarine, l’Eldorado della transizione ecologica

Miniere sottomarine: lo IUCN chiede una moratoria globale sul deep sea mining
Un “campo di patate” costituito da noduli polimetallici, l’obiettivo del deep sea mining. By Abramax – Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26131738

La presa di posizione dello IUCN per lo stop alle miniere sottomarine

(Rinnovabili.it) – Tra meno di 2 anni, l’Onu si doterà di un regolamento sul deep sea mining. Lo sta preparando l’Isa, l’International Seabed Authority, dopo l’offensiva diplomatica di Nauru, Kiribati e Tonga lo scorso giugno. Gli atolli del Pacifico vogliono mettere le mani sull’Eldorado delle miniere sottomarine, ma per riuscirci bisogna prima mettere fine al far west normativo in cui si trovano questi tesori sepolti a migliaia di metri di profondità, fuori da qualsiasi giurisdizione statale.

Lo IUCN: cautela sulle miniere sottomarine

È sicuro estrarre queste risorse? Quali sono i possibili effetti sull’ambiente? Nonostante quello che dicono i pochi studi presi in considerazione dall’Isa – tutti ottimisti e preparati dalle stesse aziende che vogliono sfruttare le miniere sottomarine – la verità è che non lo sappiamo con certezza. Gli scienziati stanno provando a comprendere di più questi ecosistemi ancora in larga parte misteriosi e le loro interazioni con gli ambienti circostanti. Ma non sono facili da studiare.

Per questa ragione occorre cautela. Meglio attendere di fare chiarezza sulle conseguenze per gli animali marini e gli ecosistemi delle profondità oceaniche, prima di dare il via al dragaggio dei preziosi “campi di patate”, gli ammassi di noduli polimetallici che giacciono sui fondali in prossimità di alcune fenditure geologiche e racchiudono metalli preziosi come cobalto, nichel, oro, zinco, piombo, rame e terre rare.

Lo sostiene lo IUCN, la più grande organizzazione conservazionista del mondo che si sta riunendo in questi giorni a Marsiglia per il congresso annuale. L’organismo che comprende più di 1.400 tra ong, agenzie statali e gruppi indigeni ha appena votato a favore del lancio di una moratoria globale sulle miniere sottomarine. Lo IUCN esprime la preoccupazione che a causa del deep sea mining “la perdita di biodiversità sarà inevitabile se si consentirà l’estrazione in acque profonde”, e che questa perdita “sarà probabilmente permanente sui tempi umani” mentre “le conseguenze per la funzione dell’ecosistema oceanico sono sconosciute”.

La corsa all’Eldorado del dee sea mining

Una presa di posizione importante, da parte di un organo che sta lavorando per stendere una base di partenza di cui discutere alla COP15 di Kunming sulla biodiversità, in programma tra ottobre prossimo e la primavera 2022. Intanto il settore è sempre più in fermento e vengono rilasciati nuovi permessi esplorativi, che lo IUCN vorrebbe bloccare con la moratoria.

Dietro la spinta per dare libero corso allo sfruttamento dei tesori dei fondali ci sono alcune aziende che stanno sviluppando i macchinari necessari per il dragaggio a tali profondità. Ma anche alcuni Stati, come la Norvegia, hanno messo gli occhi su nodi polimetallici, solfuri polimetallici e croste di cobalto. Il paese scandinavo vuole sfruttare le risorse dei suoi fondali già dal 2024 per alimentare la transizione ecologica: in particolare punta a litio e rame per accelerare la produzione di auto elettriche. E proprio questa narrativa viene usata perlopiù dai fautori del deep sea mining, nel tentativo di smontare le critiche.

Gli scienziati, dal canto loro, restano con i loro dubbi sulle conseguenze per l’inquinamento acustico, luminoso, le vibrazioni e l’innalzamento di nubi di sedimenti causate dalle operazioni di raschiamento dei fondali con l’impatto sulla colonna d’acqua sovrastante.

“Solo ora stiamo iniziando a conoscere questi ecosistemi e ancora non capiamo davvero come funzionano”, spiega Pierre-Marie Sarradin, che guida la ricerca sugli ecosistemi profondi presso Ifremer, un centro di ricerca marina in Francia. In una zona in cui il fondale oceanico è stato raschiato 30 anni fa, fa notare, “l’ecosistema non è ancora tornato al suo stato iniziale”. Non solo: “È anche difficile misurare l’impatto sul fissaggio del carbonio, un processo essenziale nella lotta contro il riscaldamento globale”.

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