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Deep sea mining, l’Onu corre verso il sì alle miniere sottomarine

Nauru ha fatto pressioni all’Isa (International Seabed Authority) per chiudere la discussione sulle linee guida internazionali entro il 2023. Il grosso degli incontri è in programma a tappe forzate tra marzo e luglio del prossimo anno. Nichel, cobalto, litio, rame e terre rare fanno sempre più gola, anche a 5.000 metri di profondità

Miniere sottomarine: lo IUCN chiede una moratoria globale sul deep sea mining
Un ‘campo di patate’ di noduli polimetallici. By Abramax – Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26131738

Ancora sconosciuto l’impatto ambientale delle miniere sottomarine

(Rinnovabili.it) – I campi di patate più preziosi del mondo finiscono nel mirino dell’Autorità Onu per i fondali oceanici. Nella sua sede di Kingston, in Giamaica, oggi l’Isa inizia a discutere le linee guida internazionali per il deep sea mining, cioè lo sfruttamento delle risorse minerarie sui fondali a migliaia di metri di profondità. Qui si trovano giacimenti di noduli polimetallici, grumi di cobalto, litio, rame, nichel, terre rare essenziali per la transizione energetica, sotto forma di distese di ‘sassi’ delle dimensioni di una patata. Miniere sottomarine che fanno gola ad aziende e Stati.

Soprattutto quei paesi che sono poveri di altre risorse e vedono nelle profondità oceaniche un’opportunità insperata di ritagliarsi un posto in prima fila durante la transizione verso emissioni zero. Nasce proprio dall’insistenza di Nauru, un arcipelago della Micronesia, il percorso accelerato che queste linee guida stanno seguendo all’Isa: il grosso delle discussioni è condensato tra marzo e luglio 2022.

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Insieme a Kiribati e Tonga, Nauru preme perché l’organismo Onu approvi in fretta un quadro normativo che dia luce verde allo sfruttamento delle miniere sottomarine. Da tempo Nauru va a braccetto con una delle società più interessate allo sfruttamento tramite deep sea mining, The Metals Company, già DeepGreen. La stessa compagnia sponsorizzata anche da Kiribati e Tonga, che hanno mire simili.

Secondo Metals Company, le miniere sottomarine avrebbero meno impatto ambientale di quelle sulla terraferma, perché spesso sono localizzate in aree ad alta biodiversità. La realtà è molto meno netta di così: non sappiamo molto su come potrebbero reagire gli ecosistemi oceanici.

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Buon parte della comunità scientifica chiede da tempo cautela, e soprattutto da quando Nauru ha premuto sull’acceleratore obbligando l’Isa a dotarsi di un regolamento entro il 2023 o ad accettare il far west delle ‘miniere a mare aperto’. Lo IUCN, la maggiore organizzazione conservazionista al mondo, durante il suo ultimo congresso lo scorso settembre ha chiesto una moratoria finché la ricerca non saprà dirci cosa succede a 3.000, 4.000 o 5.000 metri di profondità quando vengono raccolti noduli polimetallici e croste di cobalto. Anche le isole Fiji e Vanuatu chiedono uno stop preventivo fino al 2030.

Gli scienziati hanno principalmente dubbi sulle conseguenze per l’inquinamento acustico, luminoso, le vibrazioni e l’innalzamento di nubi di sedimenti causate dalle operazioni di raschiamento dei fondali con l’impatto sulla colonna d’acqua sovrastante. In alcune aree dove sono stati fatti tentativi sperimentali di sfruttamento delle miniere sottomarine, l’ecosistema in 30 anni non si è ancora ripreso del tutto, spiegava a settembre Pierre-Marie Sarradin, scienziato che guida la ricerca sugli ecosistemi profondi presso Ifremer, un centro di ricerca marina in Francia. (lm)