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Miniere sottomarine: ripristinare i fondali costa il doppio dei profitti del deep sea mining

Deep sea mining: le miniere sottomarine cancellano la biodiversità
By Hannes Grobe/AWI – Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=104756773

Il dossier analizza l’impatto delle miniere sottomarine e chiede una moratoria globale

(Rinnovabili.it) – Ripristinare gli ecosistemi dei fondali marini è sostanzialmente impossibile. E tentarlo sarebbe estremamente costoso: tra i 5 e i 6 milioni di dollari per ogni km2. Più o meno il doppio dei profitti attesi per le miniere sottomarine che causerebbero questi stessi danni. Il deep sea mining che potrebbe essere sdoganato a livello globale tra poche settimane è quindi un’attività anti-economica, prima ancora di essere un’impresa che danneggia profondamente l’ambiente. Per questo le istituzioni finanziarie dovrebbero appoggiare le richieste, avanzate anche dalla IUCN, di una moratoria sulle “miniere a mare aperto”.

A dirlo è Planet Tracker, un think tank no profit specializzato in analisi finanziaria che è il primo a tentare un’operazione complicata: calcolare l’impatto economico – e quindi la fattibilità – delle miniere sottomarine sui fondali oceanici. Complicata per tanti motivi: i dati su quegli ecosistemi sono pochi (sono i meno studiati in assoluto perché di difficile accesso), le variabili sono molte, c’è poca trasparenza su come si potrebbero svolgere davvero le operazioni di estrazione dei metalli preziosi contenuti nei noduli polimetallici o nelle croste di cobalto. Ma è un’operazione urgente, visto che a luglio l’ISA, l’International Seabed Authority, potrebbe sdoganare questa pratica anche se non esistono analisi d’impatto. E le aziende e i paesi pronti a mettere le mani sull’Eldorado sottomarino sono molti e agguerriti.

Il bilancio globale per la difesa ripristina solo il 30% delle concessioni sottomarine

Il risultato principale dello studio è cristallino: ripristinare i fondali stravolti dalle miniere sottomarine costerebbe così tanto che nessuno se lo potrebbe permettere, né gli stati né le aziende. Il modo più economico sarebbe rimpiazzare i “campi di patate” – le distese di noduli polimetallici che contengono nickel, manganese, rame, litio, terre rare, tutti metalli fondamentali per la transizione – con dei noduli d’argilla. Il costo batterebbe sui 5,3-5,7 milioni di dollari per ogni km2 di fondale. Per ripristinare anche solo il 30% delle concessioni per deep-sea mining servirebbe l’intera spesa globale per la difesa.

Questo conto, però, è solo parziale. Pensare in termini di superficie di fondale è riduttivo, bisognerebbe invece ragionare in 4D, sostiene il rapporto: includere, cioè, anche il volume e il tempo nel calcolo dell’impatto ambientale. Gli ecosistemi marini vanno valutati tenendo conto della colonna d’acqua e del tempo necessario per ripristinarli (laddove è possibile).

“Come il petrolio, i noduli polimetallici al centro degli interessi minerari richiedono decine di milioni di anni per formarsi, ma a differenza del greggio sono un habitat essenziale per la vita: oltre la metà delle specie che vivono nelle pianure abissali del Pacifico dipendono dai noduli”, scrivono gli autori, riferendosi al quadrante dove sono concentrate la maggior parte delle risorse sottomarine, la Clarion Clipperton Zone al centro del Pacifico. “Gran parte della perdita di habitat e biodiversità causata dall’estrazione in acque profonde sarebbe quindi essenzialmente permanente”.

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