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Mille miliardi di alberi per salvare il Pianeta: funzionerà?

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di Matteo Grittani

(Rinnovabili.it) – Grande attenzione mediatica è stata posta negli ultimi mesi sulla transizione ecologica e sulla crisi climatica che ci minaccia tanto quanto quella pandemica. In mezzo ad annunci non sempre realistici e scommesse su tecnologie che sembrano dettate più da logiche economiche e di mercato piuttosto che – come dovrebbe essere – da ragionamenti fisici e termodinamici, una vera e propria “moda” green sta spopolando: si parla sempre più della necessità di piantare nuovi alberi per salvare il pianeta attraverso la fotosintesi e il sequestro biologico dell’anidride carbonica.

Tutta “colpa” di uno studio “groundbreaking”, che nel 2019 dimostrava l’enorme potenziale del sequestro del carbonio se operato dai più antichi assorbitori di CO2 della storia: le piante. In sostanza con un’analisi che ebbe senza dubbio il merito di scuotere l’intera comunità scientifica, gli ecologi dell’ETH di Zurigo suggerivano di piantare un trilione di alberi per risolvere almeno in parte la crisi climatica che stiamo attraversando. Sulla spinta del loro lavoro pubblicato su Science e soprattutto del risalto mediatico conseguente, è stata lanciata a gennaio 2020 in occasione del World Economic Forum, l’iniziativa One Trillion Trees: una campagna globale di ripristino e piantumazione di foreste che mira a mettere a dimora mille miliardi di nuovi alberi entro il 2050.

Gli alberi, come è noto, sono un pozzo formidabile di anidride carbonica e piantarne di nuovi è senza dubbio auspicabile per restituire habitat alla fauna e ricostituire gli ecosistemi. Ma, allo stesso tempo, questa strategia potrebbe rivelarsi limitata e inaffidabile per assorbire CO2 e ridurre l’Effetto serra sul lungo termine. Pensiamoci: decenni di sforzi per garantire a una pianta l’altezza e il volume necessario per agire da “aspirapolvere carbonico” possono essere annichiliti in qualsiasi momento da ondate di calore improvvise, siccità, malattie, incendi o, peggio ancora, dalla deforestazione che procede inarrestabile.

Come se non bastasse, c’è il rischio che la sola idea di piantare alberi porti l’opinione pubblica a pensare che basti ciò per risolvere la crisi climatica e che tutte le trasformazioni epocali che dovremmo imporre alle nostre esistenze per renderle più sostenibili non siano più necessarie. Nulla di più fuorviante. E allora sorge spontaneo chiedersi: dobbiamo o non dobbiamo piantare questo trilione di alberi di qui al 2050? Cercheremo alla fine di questo approfondimento (che durerà alcune puntate) di rispondere alla domanda, ma per capire meglio il ruolo che la vegetazione del pianeta potrebbe avere (e avrà) in un contesto di transizione ecologica, bisogna fare un passo indietro. 

Quali piante pianteremo, farà la differenza

Secondo la stima più accurata fatta finora pubblicata sulle pagine di Nature nel 2015, ci sono circa 3mila miliardi di alberi su questo pianeta. Davvero tanti. Circa 422 per ogni singola persona sulla Terra. E pensare che prima che l’uomo cominciasse a deforestare ce ne erano circa il doppio. D’altro canto, oltre 15.3 miliardi di alberi ogni anno vengono abbattuti per far posto ad allevamento, edilizia, agricoltura intensiva e altre attività economiche poco sostenibili. Quindi potremmo dire: perché piantare nuovi alberi “piccoli” e meno capaci di assorbire CO2, e non concentrarsi invece a fermare la deforestazione che rende segatura la vegetazione matura, nel pieno della sua efficienza di sequestro del carbonio? Mistero.

Si, perché, per la natura, un albero non vale l’altro in fatto di assorbimento di anidride carbonica. Un “buon” albero ha almeno un centinaio di anni, cresce in foreste biodiverse e riesce a immagazzinare CO2 “per sempre”. Come? L’anidride carbonica non viene solo trasformata in glucosio che sostenta la pianta, crea steli e foglie (e poi finisce sulle nostre scrivanie sotto forma di fotocopie che getteremo in pochi giorni nel cestino), ma dà luogo anche a un fenomeno noto come sequestro biologico del carbonio (BCCS). In breve, le foreste “mature”, insieme al loro fitto sistema radicale, sono connesse tramite un vero e proprio network fungino, una rete di miceli dominata da una delle proteine più importanti della biosfera: la glomalina.

Nel giro di circa 150 anni, grazie alla glomalina e al suo “internet sotterraneo” di funghi e batteri, le piante sono in grado di immagazzinare tonnellate di CO2 in depositi stabili che si decompongono aerobicamente (in presenza di ossigeno) e vanno a nutrire le piante più piccole vicine. È ciò che di norma chiamiamo ecosistema. Ma nei piani “ambiziosi” (spesso sedicenti tali), le piante che vorremmo piantumare non sono certo sequoie secolari già inserite in un ecosistema che sottrae CO2 “a règime”. Niente affatto: piantiamo semi o piccoli arbusti di piante spesso poco efficienti ad assorbire gas serra e l’unico criterio con cui vengono scelte è la convenienza economica e il pay-back time con cui il legno grezzo che ne ricaveremo ripagherà l’investimento nella coltivazione. Insomma, servono un trilione di piante, ma non tutte le piante sono uguali ed egualmente efficaci ad assorbire anidride carbonica. 

La scala del problema

Come riporta il sito, finora gli alberi piantati dagli oltre 130 grandi contributori dal lancio dell’iniziativa One Trillion Trees sono solo 63 milioni. Ribadiamo un dato: ogni anno l’umanità ne abbatte 15.3 miliardi. UNEP (United Nations Environment Programme), ha cominciato a tenere conto di tutte le iniziative di riforestazione in atto nel mondo con un database nato nel 2006. Ebbene da quell’anno, gli alberi “riforestati” sono poco meno di 14 miliardi: molti senza dubbio, ma 1 miliardo di meno di quelli che perdiamo in un anno. Poniamo allora che l’iniziativa One Trillion Tree sia andata a buon fine e che tutti quanti gli alberi (sempre per chiarezza: mille miliardi), siano già stati piantati e supponiamo che siano già pronti per assorbire CO2 con efficacia paragonabile a enormi piante ben inserite in foreste secolari con reti micorriziche funzionati.

Secondo le stime degli stessi scienziati che hanno concepito l’iniziativa, potremmo catturare circa 205 gigatonnellate (miliardi di tonnellate) di carbonio emesso sotto forma di gas serra. Ciò ridurrebbe l’anidride carbonica in atmosfera del 25% e annullerebbe circa 20 anni di emissioni antropiche liberate con i ritmi attuali. Per comprendere meglio, si tratterebbe di circa la metà di tutti i gas serra emessi dall’essere umano dal 1960. Sembra un buon risultato e per certi versi lo è senza dubbio, ma bisogna ricordare che l’uomo ha prodotto in circa 300 anni circa 4000 miliardi di tonnellate di CO2 “in eccesso”, che hanno sbilanciato il ciclo del carbonio terrestre. È questo disequilibrio che ha generato il riscaldamento climatico tramite il ben noto fenomeno dell’Effetto serra.

Ecco che, muovendoci sempre nel “best case scenario”, nonostante la grande sfida compiuta dall’umanità di piantare mille miliardi di piante (uno sforzo praticamente impossibile da svolgere logisticamente, lo vedremo con il prossimo episodio), rimarrebbe ancora la gran parte dei gas serra emessi da quando l’uomo ha cominciato a bruciare combustibili fossili e agire con le sue mani sul Pianeta. In altre parole – e vedremo in dettaglio come e perché nei prossimi episodi – il problema del cambiamento climatico sarebbe solo in minima parte affrontato. 

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