Il meccanismo ISDS permette alle aziende di chiedere compensazioni agli Stati per politiche sul clima
(Rinnovabili.it) – Invece di far passare il principio “chi inquina paga”, accelerare l’uscita dalle fossili – come ha deciso la COP28 di Dubai – rischia di farci sborsare miliardi e miliardi ai grandi inquinatori. L’allarme arriva da David Boyd, relatore speciale dell’ONU su diritti umani e ambiente. Secondo Boyd l’esito della conferenza sul clima potrebbe provocare “un’esplosione” di cause legali multi-miliardarie da parte delle compagnie fossili. Come? Attraverso il meccanismo ISDS.
Dietro questa sigla si celerebbe uno dei “principali ostacoli” all’azione climatica e ambientale, avverte Boyd. Soprattutto se il passo della transizione energetica dovesse realmente accelerare, come stabilito a Dubai. L’ISDS è un sistema di risoluzione delle controversie legali tra stati e investitori. Permette a quest’ultimi di portare in tribunale i governi che promuovono politiche considerate dannose per le operazioni delle aziende. E chiedere indennizzi e compensazioni.
Meccanismo ISDS, l’asso nella manica delle compagnie fossili
Non è una possibilità teorica. Secondo un rapporto preparato dallo stesso Boyd e pubblicato lo scorso luglio, gli investitori stranieri utilizzano effettivamente il processo di risoluzione delle controversie per chiedere compensi esorbitanti agli stati che rafforzano la protezione ambientale. I casi abbondano. E le industrie dei combustibili fossili e quella mineraria hanno già vinto oltre 100 miliardi di dollari in compensazioni tramite il meccanismo ISDS. Ma il ricorso a questo strumento permette anche di rallentare l’azione climatica. Andando così in rotta di collisione con la transizione dalle fossili.
Un esempio l’abbiamo avuto di recente anche in Italia. Lo Stato è stato condannato a pagare 190 milioni di dollari alla Rockhopper, un’azienda statunitense, in seguito alla decisione di non consentire nuove trivellazioni per la ricerca di petrolio e gas offshore a meno di 12 miglia dalle coste del Belpaese.
Tra gli episodi più recenti, una causa della Zenit Energy contro la Tunisia, sempre per lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi, una analoga contro la Nigeria intentata dalla Korean national Oil Corporation, una controversia da 20 miliardi contro il Canada per lo stop a una centrale a gas dopo la valutazione di impatto ambientale, un processo in corso in cui la Discovery Global LLC fa causa alla Slovacchia (chiedendo oltre 2 mld $, circa l’2% del pil nazionale) per aver imposto una valutazione d’impatto sui futuri sviluppi dell’oil&gas. Al Congo, due compagnie minerarie australiane hanno fatto causa per una cifra pari al doppio del pil del paese africano: “In nessun modo il Congo può pagare”, nota Boyd, “Così spesso gli stati capitolano”. La lista è lunga.
E il trend è in aumento. Dai 12 casi attivati prima del 2000 si passa ai 37 tra 2000 e 2010 fino ad arrivare ai 126 lanciati tra 2011 e 2021. “Sappiamo che c’è una crisi climatica da 30 anni ma abbiamo aziende che gestiscono centrali elettriche a carbone, che dicono: ‘Avevamo una legittima aspettativa che saremmo stati in grado di continuare a bruciare carbone per sempre’”, aggiunge Boyd, sentito dall’AFP. “Questi argomenti vengono accettati da questi tribunali arbitrali”.