L’impatto ambientale dello sfruttamento delle risorse minerarie sui fondali oceanici è ancora in gran parte sconosciuto
(Rinnovabili.it) – La Norvegia diventerà il primo paese al mondo a dire formalmente sì al deep-sea mining, lo sfruttamento delle risorse minerarie sui fondali oceanici a grandi profondità. Il parlamento del paese scandinavo vota oggi il piano del governo che apre all’estrazione di minerali preziosi – molti dei quali fondamentali per la transizione energetica – mentre manca ancora un regolamento globale in merito. E gran parte della comunità scientifica teme che le operazioni possano danneggiare irrimediabilmente uno degli ecosistemi più fragili e ancora sconosciuti del Pianeta.
Cosa sono le miniere “a mare aperto”?
Le miniere “a mare aperto” sono l’ultima frontiera dell’industria mineraria. La crosta oceanica, in alcune zone, racchiude grandi quantità di minerali come rame, litio, zinco, cobalto e terre rare. Due le difficoltà principali. Una tecnica: i “campi di patate”, cioè i giacimenti di questi minerali che si presentano sotto forma di noduli polimetallici o di croste di cobalto, giacciono a profondità comprese tra i 3 e i 6mila metri. Recuperarli in modo economicamente conveniente non è semplice. Finora solo una manciata di aziende ha sviluppato delle soluzioni ad hoc, con qualche test pilota già eseguito.
La seconda difficoltà riguarda gli aspetti legali. La maggior parte dei giacimenti di risorse minerarie sui fondali oceanici si trova al di fuori delle zone economiche esclusive su cui gli Stati possono accampare diritti. A regolare questo settore pionieristico ci sta provando da anni l’ISA, l’International Seabed Authority, un ente ONU con sede a Kingston in Giamaica. Anche a causa delle pressioni di alcuni paesi – soprattutto piccoli stati insulari del Pacifico – l’ISA ha accelerato i lavori e il 1° regolamento sul deep-sea mining potrebbe vedere la luce già nel 2024.
Quali risorse minerarie sui fondali oceanici vuole la Norvegia?
Nel caso della Norvegia, però, le decisioni dell’ISA non sono dirimenti. I giacimenti a cui punta Oslo sono localizzati nelle acque di pertinenza del paese scandinavo. Il piano dell’esecutivo – che ha l’appoggio di una vasta maggioranza in parlamento, anche tra i partiti all’opposizione – aprirebbe allo sfruttamento delle risorse minerarie sui fondali oceanici un’area di 280.000 km2, appena più piccola dell’intera Italia. Le compagnie minerarie potrebbero quindi iniziare a richiedere licenze di sfruttamento. Il via libera all’estrazione, però, potrebbe essere congelato ancora per qualche tempo: il governo norvegese ha affermato di voler condurre studi più approfonditi sull’impatto ambientale.
L’accelerazione decisiva sul fronte del deep-sea mining, per la Norvegia, arriva nel 2021, al termine di un processo di valutazione dell’entità delle risorse durato 3 anni. Valutazione estremamente positiva: potrebbero esserci fino a 21,7 milioni di tonnellate di rame (più della produzione mondiale di rame nel 2019) e 22,7 milioni di tonnellate di zinco sulla piattaforma continentale norvegese, stimano i ricercatori della Norwegian University of Science and Technology. Rinvenuti anche litio e scandio. I giacimenti sono collocati lungo la dorsale medio atlantica tra l’isola di Jan Mayen e l’arcipelago delle Svalbard nel Mare di Norvegia, fino a 700 km dalla costa.
L’impatto del deep-sea mining
Fino ad ora sono pochi gli studi scientifici che hanno provato a soppesare i possibili impatti su ambiente e biodiversità dello sfruttamento delle risorse minerarie sui fondali oceanici. Ancor meno sono quelli che hanno studiato le conseguenze reali dei pochi test condotti. I risultati, comunque, sono preoccupanti. Dall’inquinamento acustico che si propaga anche a grande distanza dal sito estrattivo all’inquinamento dell’intera colonna d’acqua, secondo la principale ricerca sistematica in materia l’impatto ambientale avrebbe effetti “estesi” e “irreversibili”. Uno studio pubblicato nel 2023 su Cell è ancora più pessimista. Un test durato appena due ore di estrazione di croste di cobalto al largo del Giappone ha dimezzato le popolazioni di pesci e crostacei anche dopo 12 mesi, e non solo nell’area interessata direttamente dalle operazioni.