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Addio (per davvero) al Keystone XL: il costruttore rinuncia all’oleodotto

Keystone XL: TC Energy rinuncia, l’opera non si farà
credits: Lorie Shaull via Flickr | CC BY-SA 2.0

L’oleodotto Keystone XL avrebbe portato sabbie bituminose dall’Alberta al Nebraska

(Rinnovabili.it) – Dopo 12 arriva la parola fine per il Keystone XL. L’oleodotto simbolo di una delle battaglie più iconiche dell’ecologismo nordamericano non si farà. Dopo la politica e i tribunali, adesso anche l’azienda che doveva costruire l’opera e ne deteneva i diritti, la TC Energy, ha rinunciato. Sulla decisione hanno pesato i debiti accumulati con lo stop all’opera imposto da Biden: solo nel primo trimestre 2021 il passivo ha sfiorato i 2 miliardi di dollari.

L’impatto ambientale dell’oleodotto Keystone XL

L’oleodotto Keystone XL avrebbe dovuto trasportare fino a 830mila barili di olii bituminosi da Alberta, in Canada, a Steele City, in Nebraska. Da lì la connessione alla pipeline madre per portare il suo carico fino alle raffinerie sulla costa del Golfo. Un percorso di oltre 2.000 km per dare alle tar sands canadesi – una delle fonti fossili più inquinanti – accesso alle infrastrutture americane per l’export e ai mercati internazionali.

Nel complesso il progetto sul petrolio da sabbie bituminose avrebbe movimentato qualcosa come 5 miliardi di dollari. Al di là delle preoccupazioni climatiche, le proteste si sono concentrate sui possibili sversamenti e sull’inquinamento e i danni ambientali che ne deriverebbero. Soprattutto sul fronte idrico. Il condotto sarebbe passato direttamente sopra la falda acquifera di Ogallala, un enorme serbatoio sotterraneo nelle Grandi Pianure che fornisce l’accesso idrico a milioni di cittadini, tra cui diverse tribù di nativi americani. Anche una piccola perdita poteva contaminare milioni di litri d’acqua con benzene, mettendo in serio rischio le riserve idriche potabili. D’altronde la stessa azienda titolare del Keystone XL ipotizzava circa 11 sversamenti significativi nei rimi 50 anni di operazioni. Cifra considerata troppo bassa da analisi indipendenti fatte dall’università del Nebraska: gli incidenti avrebbero potuto essere 8 volte di più.

La parabola della pipeline Keystone XL

L’ultima bocciatura all’opera l’ha data Joe Biden a gennaio 2021, nel giorno del suo insediamento. Nella raffica di provvedimenti di inizio mandato, il neo presidente aveva messo in pausa l’opera. Facendo però capire che voleva cancellarla. Non a caso il Canada – soprattutto il governo dell’Alberta, che dipende economicamente dallo sfruttamento del petrolio da sabbie bituminose – aveva protestato.

È solo l’ultima giravolta di una vicenda piuttosto complicata. La prima stroncatura risaliva addirittura all’era di Obama. “Non è nell’interesse dell’America”, aveva dichiarato mentre apponeva il veto sull’opera. Infatti il Congresso, allora a guida repubblicana, premeva per dare luce verde al progetto. E con l’avvento di Trump la musica è cambiata. The Donald aveva subito preso in mano il dossier e fatto ripartire l’iter.

Iter che non è stato mai lineare, vuoi per le proteste che hanno rallentato i lavori, vuoi per le sentenze dei tribunali che obbligavano l’azienda a rivedere parte del tracciato per evitare catastrofi ambientali. Si arriva così al 2020, con la costruzione rimandata grazie a una sentenza di un giudice del Montana che ha revocato i permessi di attraversamento delle acque. Poi le elezioni di novembre e il trionfo di Biden. Che aveva fatto del Keystone XL una misura di bandiera del suo mandato. La promessa: rimettere al centro giustizia climatica e diritti dei nativi.

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