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Cosa farà davvero Joe Biden su clima e energia?

Cosa riuscirà davvero a ottenere il neo presidente? Come sceglierà di muoversi sul fronte interno e sullo scenario internazionale? I commenti di Luca Franza (Iai) e Simone Tagliapietra (Bruegel, Cattolica)

Joe Biden
Credits: Adam Schultz / Biden for President via Flickr | (CC BY-NC-SA 2.0)

Ostacoli e opportunità per l’agenda climatica di Joe Biden

(Rinnovabili.it) – Sulle prime mosse di Joe Biden come 46° presidente degli Stati Uniti ci sono pochi dubbi. Il cambiamento climatico sarà al centro della sua agenda a partire dal 20 gennaio, quando si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca. Firmerà l’atto per far tornare gli USA dentro l’accordo di Parigi sul clima. E probabilmente emanerà subito degli ordini esecutivi per ribaltare alcune delle misure più controverse volute da Trump.

Ma quanto riuscirà davvero a ottenere il neo presidente? Gli ostacoli lungo il suo cammino sono molti. Sia all’interno, sia sullo scenario internazionale. Al netto dei semplici slogan e delle promesse elettorali, cosa ci possiamo realisticamente attendere dai prossimi 4 anni di presidenza Biden sul fronte dell’azione climatica e delle politiche energetiche?

Aspettando il 5 gennaio

Per avere un’idea di quanto margine di manovra avrà Joe Biden bisogna aspettare il 5 gennaio, quando si terranno le elezioni suppletive in Georgia. “Lì si deciderà se il Senato è a maggioranza democratica o repubblicana – spiega Simone Tagliapietra, ricercatore presso il think tank Bruegel e docente alla Cattolica – Se sarà della sua parte politica, Biden potrà accelerare su tutta l’agenda climatica. Se invece resta repubblicano il presidente dovrà agire tramite ordini esecutivi e le agenzie federali. Ma non tutto si può fare solo con questi strumenti”.

A questa incognita della prima ora se ne aggiunge un’altra, che invece grava sul resto del suo mandato e soprattutto sulla seconda metà. Biden è un moderato, ma l’ala più progressista del suo partito scalpita. Soprattutto su temi come il clima. E si sta affacciando una nuova generazione di possibili candidati, già con un occhio alle prossime elezioni quando Biden avrà già spento 81 candeline. Tra queste due anime dei democratici “a grandi linee c’è convergenza sugli obiettivi, meno sull’attuazione”, sottolinea Luca Franza, responsabile del programma Energia, clima e risorse dello Iai. “Questi nodi verranno al pettine prima o poi. Biden ha promesso zero emissioni nella generazione elettrica, ma questo significa chiudere tutte le centrali a carbone. E che ruolo avrà davvero il gas, se si vuole centrare questi obiettivi di decarbonizzazione?”.

Joe Biden deve parlare anche ai repubblicani

Per Tagliapietra però ci sono dei margini per trovare una quadra con i repubblicani. “E’ vero, dovrà eliminare il carbone, ma questo vettore negli Stati Uniti non ha più senso dal punto di vista commerciale considerando quanto sono ormai competitive le rinnovabili”, argomenta il ricercatore. E suggerisce due temi da osservare da vicino per capire se Joe Biden riuscirà a convincere almeno una parte del repubblicani. “Il primo è la green recovery, quindi legare il piano di ripresa post-Covid a misure di contrasto al cambiamento climatico. Tema che è uno dei 4 pilastri del team di transizione di Biden. Il secondo sono gli incentivi alle rinnovabili. Qui Biden dovrà trovare il modo di stimolare l’intera filiera, ad esempio per pale eoliche e pannelli solari. E se tocca i tasti giusti un accordo coi repubblicani è fattibile”.

Più cauto il giudizio di Franza. “Il rischio maggiore è una diluizione degli sforzi, tenuto conto che Biden dovrà bilanciare vari dossier. E tener ben presente dati come la situazione occupazionale, anche vedendo in che Stati c’è stato più testa a testa, come in Pennsylvania” dove il fracking è un tema molto sensibile. “Gli Stati Uniti continueranno a investire sull’oil&gas, ma ci saranno anche ingenti fondi pubblici per la transizione energetica. In generale mi immagino un cambio di passo nella retorica, con un abbandono della narrazione degli USA come superpotenza fossile, ma non una fine del fracking”.

Parlare a Bruxelles perché Pechino intenda

Meno superpotenza, ma gli USA resteranno un peso massimo nelle politiche climatiche globali. E qui Biden dovrà calcolare attentamente le sue prossime mosse, con un occhio all’Europa e l’altro al Pacifico e alla Cina. “Biden può scegliere di porre l’enfasi sull’autonomia strategica americana, oppure dare priorità al calo dei costi delle tecnologie per la transizione energetica”, valuta l’esperto dello Iai.

Nel primo caso ci possiamo immaginare anche “una partnership transatlantica rafforzata, con sinergie sui framework per stimolare gli investimenti verdi e altri temi strategici”, con un tentativo di tagliare fuori Pechino o comunque diminuirne l’importanza a livello commerciale. Mentre nel secondo la priorità sarebbe abbattere ulteriormente i costi anche nell’equipment delle rinnovabili tramite la condivisione tecnologica. “Autonomia strategica e bassi costi si possono conciliare, ma Biden deve decidere come si vuole muovere”, chiude il ragionamento Franza.

“Una partnership con l’UE è necessaria”, puntualizza Tagliapietra. Non in materia di politiche industriali, che resteranno appannaggio dei singoli paesi. Niente alleanze tecnologiche su batterie o EV all’orizzonte, quindi, per l’esperto di Bruegel. Ma c’è spazio per una cooperazione internazionale “su iniziative che non possono essere unilaterali, come l’introduzione di una carbon border tax.

Sia perché la vogliono tanto Biden che l’UE. Sia perché “se Washington e Bruxelles non si coordinano si apre la porta a protezionismo e guerre commerciali, e si rischia un intoppo con le regole del WTO. Mentre se procedono in sintonia si arriva all’aumento del prezzo del carbonio”. E poi c’è un incentivo geopolitico da non sottovalutare: un’alleanza su questo tema “è uno scenario terrificante per la Cina, che non potrebbe rispondere in altro modo se non aumentando il suo livello di ingaggio”.

Altro buon motivo perché Biden allunghi la mano verso Bruxelles: lavorare insieme sulle tecnologie per le emissioni negative. Su direct air capture e carbon capture and storage (CCS) “i costi sono alti e non c’è ancora un vero ritorno economico per le aziende, perché il sequestro di carbonio non paga abbastanza. Anche qui c’è spazio per più cooperazione internazionale: penso ad una sorta di ‘Net-Zero Global Coalition’ tra UE e Stati Uniti”, conclude Tagliapietra.