Vietnam e Mongolia i paesi dove sono ancora pianificati più investimenti nel carbone
(Rinnovabili.it) – Quella tra il carbone e la Cina è una relazione tanto stretta quanto scomoda. Pechino ha fatto affidamento su questa fonte fossile per costruire la sua crescita economica vertiginosa negli ultimi due decenni. Ma se ne è anche servita per tessere relazioni internazionali più fitte e proficue con molti paesi, in una diplomazia economica, o meglio energetica, che proietta il gigante cinese al primo posto investimenti nel carbone all’estero.
Con quali risultati, nella realtà, lo spiega l’ultimo rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA) che si è concentrato sul finanziamento all’estero di impianti a carbone o miniere. Lo studio rivela che l’appetito dei partner di Pechino per il carbone sta scemando rapidamente e che la tendenza al ribasso è piuttosto chiara.
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“Confrontando lo stato dei progetti di carbone sostenuti dalla Cina tra il 2017 e il 2021, abbiamo scoperto che un’ondata di cancellazioni ha colpito gli investimenti nel carbone sostenuti dalla Cina: 4,5 volte la capacità è stata accantonata o cancellata rispetto a quella avviata”, scrivono gli autori dello studio.
In pratica per ogni progetto che ha preso davvero il via negli ultimi 4 anni, ce ne sono almeno 4,5 che sono stati cancellati definitivamente oppure congelati. Uno sguardo ai paesi dove si trova la maggior capacità cancellata o accantonata mostra che ai primi posti ci sono Stati asiatici come India, Indonesia e Bangladesh, ma non mancano paesi di altre regioni come Egitto, Pakistan e Zimbabwe. La prima terna di Stati, però, è anche quella in cui si registra il maggior numero di progetti effettivamente avviati oppure pianificati. La quota di MW più grande di progetti in programma si trova in paesi vicini della Cina che ne subiscono più di altri l’influenza economica (e politica): sono Mongolia e soprattutto Vietnam i paesi su cui Pechino punta di più per gli investimenti nel carbone.
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Da cosa dipende questa parabola discendente? “Questa tendenza nelle cancellazioni può essere attribuita all’indebolimento della competitività economica, all’opposizione dell’opinione pubblica e alle preoccupazioni sull’impatto ambientale e sociale e all’eccesso di capacità nei paesi beneficiari”, valutano i ricercatori del CREA.