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Allarme di Cdp, l’Italia deve potenziare subito le sue infrastrutture del gas

Sicurezza energetica UE: la ricetta per non incatenarsi di nuovo al gas
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Il dossier sulle carenze delle infrastrutture del gas del Belpaese

(Rinnovabili.it) – Anche se l’Italia sfrutta solo al 60% le infrastrutture del gas, il Belpaese “risulta vicino alla soglia critica di inadeguatezza” e avrebbe seri problemi a garantire gli approvvigionamenti necessari in caso di stop ai flussi dalla Russia. Lo scrive il servizio studi di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) nel dossier Sicurezza energetica: quali prospettive oltre l’emergenza? pubblicato il 20 maggio, in cui propone una strategia in tre passi per tamponare la situazione nel breve e medio-lungo periodo.

Le carenze italiane

Cosa succederebbe se il Cremlino chiudesse del tutto i rubinetti? L’Italia può contare su un meccanismo europeo di solidarietà: in concreto, potrebbe ricevere gas da Francia, Germania (via Svizzera), Austria e Slovenia. Ma anche questi paesi sono in difficoltà e devono portare gli stoccaggi all’80% entro la stagione invernale. Puntare sulle risorse interne di gas è “una strada difficilmente percorribile”, scrive Cdp. Perché? Si produce appena il 4% dei consumi nazionali, dei 1300 giacimenti presenti solo 500 sono coltivati con continuità, e il cluster più rappresentativo è nell’Alto Adriatico dove vige il divieto di estrazione.

Quindi bisogna importarlo. Reperendo altrove i 30 miliardi di metri cubi che oggi arrivano dalla Russia. Ma le infrastrutture del gas italiane non sarebbero adeguate a raggiungere questo obiettivo, spiega Cdp. Il livello di utilizzo della dotazione infrastrutturale, infatti, è ferma al 57% dei 130 miliardi di metri cubi di capacità nominale complessiva. Perché?

Il dossier cita un calo strutturale per il Passo di Gries attraverso cui il gasdotto TENP-Transitgas porta nella penisola il gas olandese e del mare del Nord (entrambi si stanno progressivamente esaurendo), ma mette nel conto anche il calo di utilizzo del gasdotto che porta a Mazara del Vallo il gas dall’Algeria, passato dal 99% del 2018 al 40% circa del 2019-2020. In realtà, è proprio sul recupero della piena capacità di questa pipeline attraverso un accordo stipulato con Algeri a marzo che Roma punta a emanciparsi dal grosso della dipendenza russa, garantendosi 9 mld di m3 in più. Ma a partire dal 2024, e solo se la produzione algerina terrà il passo (e il paese rimane stabile). Per Cdp la finestra tra adesso e il 2024 resta critica.

Tre soluzioni sulle infrastrutture del gas

Come se ne esce? Il dossier propone una strategia in tre mosse. Nessuna delle quali, va detto, considera il rischio di incatenare l’Italia alle fossili per decenni e, quindi, di fallire gli obiettivi sul clima rallentando la transizione energetica. Cdp si limita a ricordare che le rinnovabili sono ancora poco sviluppate e che “nel frattempo” (ma per quanto tempo?) conviene puntare sul gas perché è “l’idrocarburo meno inquinante”. Lo sviluppo dell’infrastruttura del gas che suggerisce il dossier, però, non contempla i tempi di ritorno degli investimenti e altri fattori simili che alimentano il rischio stranded assets o il lock-in di emissioni.

Per arginare il rischio sul breve periodo, Cdp suggerisce il pieno sfruttamento della capacità di stoccaggio nel brevissimo periodo e il potenziamento della capacità di trasporto del TAP e incremento dell’effettivo utilizzo dei metanodotti esistenti del Nord Africa. Sul medio-lungo periodo, invece, l’Italia dovrebbe rafforzare la capacità di rigassificazione, per consentire una rimodulazione delle importazioni di gas verso il Gnl (la capacità oggi è 15 mld di m3).

Le misure immediate però hanno un costo. “Se dovessimo portare oggi lo stoccaggio al 90% delle nostre possibilità, dovremmo acquistare circa 120TWh di gas, sottolinea il dossier sulla base dei 18 mld di m3 di capacità di storage attivi in Italia. “Ipotizzando di applicare il prezzo che attualmente si utilizza sui mercati, si potrebbe immaginare un costo pari a 12€/mld”. Le altre non sono così immediate. Raddoppiare il TAP da 10 a 20 mld di m3 è già nell’aria e permetterebbe di risolvere 1/3 del problema della dipendenza dalla Russia. Ma i lavori durerebbero almeno 4 anni.

La strategia che permette all’Italia più flessibilità passa dal Gnl ma richiede tempo e spese considerevoli. Il governo punta sulle FRSU, navi metaniere che fungono da rigassificatori offshore. Se le navi sono già operative, avviare il punto di importazione del Gnl prende dai 12 ai 18 mesi (arriveremmo così, comunque, al 2024). E bisogna considerare la concorrenza: con molti paesi UE che cercano di acquistare FRSU senza coordinamento, la competizione è tanta, i prezzi possono salire, e gli accordi sfumare se da altri paesi arrivano offerte migliori. Altra ipotesi è quella di importare più Gnl dalla Spagna, l’hub europeo con maggior capacità di import, tramite “navi spola”. Resta però il collo di bottiglia della capacità nazionale di rigassificazione.

Ma sul fronte del Gnl, Cdp ravvisa “elementi di criticità con riferimento alla reperibilità e ai costi”. “L’andamento storico dei prezzi del gas a livello internazionale, infatti, evidenzia come l’approvvigionamento tramite gasdotto sia generalmente più competitivo rispetto a quello tramite nave e come mercati strutturalmente dipendenti dal GNL, come il Giappone, siano più attrattivi rispetto all’Europa”, conclude il dossier. Criticità che bilanciano il possibile ruolo dell’Italia come nuovo hub UE per il Gnl, sfruttando l’alta capacità di storage (seconda solo alla Germania nell’UE) e lo sviluppo dell’infrastruttura del gas e delle interconnessioni col resto del continente.

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