Uno studio commissionato da Greenpeace Olanda analizza la comunicazione social durante l’estate di 22 grandi compagnie fossili, dell’automotive e aeree in Europa. Silenzio tombale sulla crisi climatica, puntano sui messaggi dedicati all’innovazione verde, sviano l’attenzione con temi collaterali, e fanno ampio ricorso a un immaginario legato alla natura
Il rapporto sul greenwashing passa al vaglio oltre 2.200 post su Facebook, Instagram, TikTok, Twitter e YouTube
(Rinnovabili.it) – Cos’hanno in comune le compagnie fossili, le aziende dell’automotive e le compagnie aeree europee? Hanno una comunicazione social con altissimi livelli di greenwashing. E preferiscono tacere sulla realtà della crisi climatica, ma fanno ampio uso di un immaginario legato alla natura per ripulirsi l’immagine. Lo sostiene un rapporto di Algorythmic Transparency Institute (ATI) che ha analizzato oltre 2.200 post sui maggiori social (Facebook, Instagram, TikTok, Twitter e YouTube) di 22 grandi realtà industriali del vecchio continente durante l’estate.
Non un’estate qualsiasi. “Osserviamo che durante un periodo di ondate di calore, siccità e incendi senza precedenti in Europa, aggravati dal riscaldamento globale causato dall’uomo, le 22 aziende hanno taciuto sui cambiamenti climatici”, scrivono gli autori. “Solo un numero trascurabile (0,3%) ha fatto esplicito riferimento al “cambiamento climatico” o al “riscaldamento globale””.
Innovazione verde
La maggior parte della comunicazione social di queste 22 aziende è occupata da quella che il rapporto definisce “narrativa della Green Innovation”. Funziona così: si evita di affrontare direttamente il tema del cambiamento climatico, pur presentando le aziende come attente all’ambiente, impegnate o impegnate in tecnologie a basse emissioni di carbonio e nell’innovazione tecnologica. È la narrativa che spesso finisce sotto l’etichetta “Siamo parte della soluzione”.
Sia chiaro, l’inghippo non sta nel dire cose false. Le aziende sono realmente impegnate nelle attività di cui parlano nei post in questione. Il punto è la quantità di post che ne parlano, rispetto a quelli che presentano le attività core della compagnia. Il rapporto tra queste due tipologie è di 3 a 1 per le aziende fossili, di 4 a 1 per l’automotive, e di 2,1 a 1 per le compagnie aeree. Se ne ricava così l’impressione che siano molto più impegnate a risolvere la crisi climatica di quanto non siano in realtà. Che sia fatto in modo deliberato o no, questa è l’esatta dinamica dietro alla disinformazione propriamente detta.
Sviamento
Un altro stratagemma identificato nel rapporto è spostare l’attenzione su temi che non sono in alcun modo collegati con ciò di cui si occupa l’azienda. Questo filone, definito “misdirection” (lo potremmo tradurre con “sviamento”), si concretizza in post che parlano di sport, moda o cause sociali. Sono dedicati a questi temi il 23% dei post delle aziende fossili, il 22% di quelli del settore auto e il 15% di quelli delle compagnie aeree.
A che serve? “Ciò può in vario modo (1) legittimare la licenza sociale di operare degli interessi dei combustibili fossili; (2) distogliere l’attenzione dai ruoli, dalle responsabilità e dai contributi delle imprese alla crisi climatica; e (3) commercializzare i marchi come esclusivi, desiderabili e rilevanti”, spiega il rapporto, che è stato commissionato dal ramo olandese di Greenpeace.
La natura serbatoio di greenwashing
C’è poi un ultimo aspetto degno di nota. Il rapporto trova una correlazione statisticamente rilevante tra i post di puro greenwashing e l’uso di immagini che rimandano alla natura. In pratica succede questo: le aziende costruiscono una comunicazione dove i richiami alla natura danno una cornice tale per cui l’azienda, agli occhi del consumatore, risulta più “verde” e “sostenibile” pur senza che quei richiami siano il focus del messaggio. È una pratica che viene studiata in ambito accademico, dove è stato acclarato un riscontro sul modo in cui si modificano le percezioni di chi è esposto a questo tipo di comunicazione.