Le implicazioni del Green Deal sulla politica estera UE secondo EUI, ECFR e Bruegel
(Rinnovabili.it) – Non è un’Europa che si guarda l’ombelico, quella che ha deciso la torsione verde del Green Deal. L’onda lunga della transizione energetica ed ecologica voluta a passo accelerato dalla Commissione von der Leyen si farà sentire anche nella politica estera di Bruxelles. L’esecutivo UE ne deve essere consapevole e deve prepararsi per tempo.
Una lettura geopolitica del Green Deal attenta è quella condotta da tre fra i più blasonati think tank europei. Nel rapporto “The geopolitics of the European Green Deal”, i ricercatori di Bruegel, European University Institute e European Council on Foreign Relations passano al setaccio le implicazioni delle politiche climatiche UE sul vicinato europeo e sui partner strategici di Bruxelles. E danno dei suggerimenti su come impostare una politica estera che sia pienamente consapevole della portata delle trasformazioni in atto.
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Il Green Deal è politica estera, scrivono gli autori, per diverse ragioni. Causerà un cambio strutturale dei rapporti commerciali con il vicinato UE, visto che nel 2019 le importazioni di prodotti energetici ammontavano a 320 miliardi di euro ed è legato all’energia il 60% del commercio con la Russia. Ma l’UE è anche un continente energivoro che importa 1/5 del greggio mondiale. Tutti aspetti destinati a essere stravolti dalla transizione energetica. Che porterà in dote una dipendenza maggiore dalle materie prime necessarie per l’energia pulita, a partire dalle terre rare e da elementi come il litio su cui si basa lo stoccaggio energetico.
C’è poi il capitolo competitività, legato a temi come la carbon border tax e eventuali carbon leakage, ovvero politiche virtuose entro i confini UE che non riescono a fermare la “delocalizzazione” dell’emissione di CO2. E infine il rapporto ricorda la portata globale e pervasiva della diplomazia climatica. Il clima è un problema globale e richiede soluzioni globali affinché siano efficaci. Ciò implica che il clima deve innervare necessariamente la diplomazia europea, non solo nelle sedi più “convenzionali” come la COP.
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Su questo sfondo EUI, ECFR e Bruegel consigliano a Bruxelles 7 mosse. Primo, aiutare i paesi esportatori di gas e petrolio a diversificare le loro economie, soprattutto verso forme di energia rinnovabile e la produzione di idrogeno verde così che possano mantenere l’export verso l’UE. Poi occorre diversificare le supply chain, specie delle materie prime più critiche. E limitare la dipendenza dalla Cina, aspetti su cui Bruxelles già si muove almeno sul fronte batterie. Spicca in questo ambito la necessità di sostituire i materiali più critici.
La carbon border tax va sfruttata per creare una “Schengen del clima”: lavorare con gli USA e con altri paesi per stabilire un’area di libero scambio climatico che applica misure doganali simili sul carbonio. E renderla attrattiva per altri Stati. Un modello più “centralizzato” o per lo meno a trazione occidentale, a ben vedere, di quello che si prospetta invece con la creazione di un mercato del carbonio globale in cui il peso specifico cinese sarebbe notevole.
Servono poi standard globali su idrogeno e green bond. Bisogna usare il “bazooka” delle risorse economiche e finanziarie mobilitate per la pandemia per internazionalizzare il Green Deal promuovendo interventi oculati fuori dai confini europei. E va creata una piattaforma globale per condividere le buone pratiche legate all’azione climatica.